Il fondamentalismo che ha invaso le menti e i comportamenti del XXI secolo ha assunto forme belliche in alcune zone della terra e aspetti deliranti nei paesi del capitalismo avanzato sotto forma di ossessioni nei confronti del corpo. Uno di questi esemplari è Mina (Alba Rohrwacher), italiana che lavora all’ambasciata a New York, protagonista di Hungry Hearts di Saverio Costanzo. Non è solo di scarso appetito come si pensa all’inizio, ma ne astiene il più possibile ideologicamente, per paura delle contaminazioni da impurità fino a respingere il contatto con il prossimo.

Costanzo che nel suo esordio isolava il suo protagonista in un luogo di spiritualità, qui ne isola due nel proprio appartamento coniugale con un significativo prologo, il primo incontro di lui e lei rimasti bloccati nei bagni di un ristorante cinese. Lui è l’emergente Adam Driver (era in Lincoln di Spielberg, sarà in Silence di Scorsese e in Star Wars VII), un altro ingegnere tra i vari protagonisti dei film alla Mostra, nella parte di Jude, gentile e politicamente corretto giovane newyorkese senza istinti da maschio latino prevaricatore, forse con una madre un po’ strana, con cui deve aver avuto qualche conflitto che si indovina soltanto,con la tendenza a credere che i problemi si possano risolvere con la pacata discussione. Ci vorrebbe poco a capire che un uomo che non è in grado di aprire una porta chiusa a chiave con un calcio non sarà neanche capace di prendere in mano altre situazioni, una ghiotta preda per la femmina manipolatrice. In un secondo lei può immaginare che la sua delicatezza potrà esserle utile a condurlo dove vuole.

Infatti, Mina lo sposa. Nella sua testa ha un piano ben preciso che esplode con la nascita del figlio: niente medici, parto in acqua, vegetali a colazione, banditi per sempre la carne e tutti i suoi derivati. Isolandolo dal resto del mondo potrebbe diventare l’«indigo children», il bambino indaco della New Age che salva l’umanità, parla con gli angeli e sarà forse dotato di poteri paranormali. Ma il piccolo, nato già sottopeso rischia il rachitismo se non la morte. Prima del parto il rapporto procede con dolcezza e serenità, poi si scatena quella che regista e attori si ostinano a non chiamare follia, ma certo è un «comportamento non convenzionale», una forma di nevrosi da anoressia che coinvolge chi vive accanto con una violenza devastante e maniacale, tanto più inaspettata perché proviene da soggetti assai fragili fisicamente.

Questi passaggi Costanzo riesce a tradurli in termini cinematografici: l’infantilismo, l’occupazione del territoro anche mentale, con la casa che sembra un percorso di guerra segnata da griglie e sbarramenti, la serra sul tetto dove coltivare il cibo «biologico» da somministrare al neonato dopo solo quattro mesi di allattamento. In una unica inquadratura si sorprende la vera natura della donna: Mina cambia aspetto e diventa come una oscura presenza pronta a scatenare distruzione. Per il resto appare indifesa, verrebbe quasi da pensare che forse potrebbe aver ragione lei a sperimentare qualcosa di nuovo.

Attraverso i sotterfugi, il rispetto dell’altro con cui Jude tenta di cambiare le cose si capisce che la gabbia emotiva dei due protagonisti sta prendendo sempre più forma. La camera si avvicina pericolosamente ai due chiusi nell’appartamento come fossero loro le prede di loro stessi, un corpo pronto a ingoiare l’altro, distorcendo un po’ le immagini così come ora si vedono, come sono diventati, estranei e pericolosi nemici. Il film è tratto da Il bambino indaco di Marco Franzoso (Einaudi) è una storia vera spostata dall’Italia a New York, perché difficilmente in Italia l’isolamento familiare sarebbe credibile, in qualche modo le nostre abitudini alimentari prenderebbero il sopravvento. Costanzo sceglie poi un soluzione inaspettata per uscire dalla storia.