Come spesso accade con le pensioni, specialmente sotto elezioni, Il governo sta creando fumo accattivante con proposte ancora vaghe, ma rilanciate con enfasi mediatica crescente; rimane invece più in penombra che, accanto a quello delle pensioni, è stato creato un secondo “tavolo” di riforma del mercato del lavoro che suggerisce molte più preoccupazioni.

Le proposte che vengono abbozzate da qualche tempo dovrebbero trovare posto – con i loro oneri finanziari ancora tutti da definire – nella legge di Stabilità la quale sarà approvata a fine anno; dunque tra sei mesi.

Peraltro, la legge sarà presentata in ottobre, cioè nello stesso periodo del referendum costituzionale, e dovrà rispettare le condizioni di bilancio poste dalla Commissione europea per le misure di flessibilità «senza precedenti» concesse nei giorni scorsi.

Le proposte sulle quali il governo richiama l’attenzione sono quelle elettoralmente più appetibili: l’introduzione della flessibilità di pensionamento e l’aumento dei trattamenti minimi. Sullo stesso tavolo delle pensioni, ma molto meno in vista, c’è anche l’intenzione di ridurre di 3-4 punti le aliquote fiscali sui rendimenti dei fondi pensione privati. Quest’idea s’inserisce coerentemente nella complessiva politica governativa di privatizzare lo stato sociale che prevede per la previdenza privata un ruolo sostitutivo e non complementare rispetto a quella pubblica. A questo riguardo, si pensi anche agli incentivi alla creazione dei fondi sanitari privati, mentre per il Servizio sanitario nazionale si confermano le ristrettezze finanziarie che hanno fatto aumentare il divario negativo tra la nostra spesa – sia rispetto al Pil che pro capite – e quella media dei paesi europei; con le inevitabili conseguenze del crescente aumento delle file d’attesa per le prestazioni, la riduzione della loro qualità e la maggiore partecipazione alla spesa dei cittadini.

D’introdurre una qualche flessibilità per l’età di pensionamento se ne discute da molti anni, ma è diventata una necessità impellente dopo le disastrose modifiche introdotte dalla riforma Fornero, i cui effetti negativi non riguardano solo il sistema pensionistico, ma i più generali equilibri economico-sociali del Paese. Tuttavia, al di là delle prese di distanza apparenti da quella legge, il governo non intende intervenire concretamente per ripararne i danni. Nella sua politica di bilancio rimane confermata la scelta di considerare il sistema pensionistico pubblico come un bancomat cui attingere a favore delle rimanenti voci dei conti pubblici. Infatti furono sufficienti le riforme previdenziali degli anni ’90 per risanare lo squilibrio finanziario che si era creato e dal 1998 il saldo annuale tra le prestazioni previdenziali nette e le entrate contributive è diventato attivo per decine di miliardi.

La possibilità di anticipare il pensionamento per le generazioni nate tra il 1950 e il 1953 (poi si dovrebbe passare a quelle successive), oltre alla penalizzazione normalmente prevista dal sistema contributo, implicherebbe un ulteriore taglio delle prestazioni (si parla del 3-4% – e in alcuni casi più – per ogni anno di anticipo, fino a massimo tre). Per non toccare il bilancio pensionistico, l’erogazione anticipata delle pensioni verrebbe finanziata tramite prestiti concessi da banche e istituti assicurativi cui sarebbero restituiti, a partire dal raggiungimento dell’età di pensionamento previsto dalla legge Fornero, alle condizioni e con gli interessi concordati in base alle diverse caratteristiche dei lavoratori interessati. L’onere per il bilancio pubblico si limiterebbe dunque alle spese assicurative (e, in casi limitati e in qualche misura, anche agli interessi) per garantire le banche per le quali si aprirebbe un’attività sicura. Il valore annuale della pensione sarebbe dunque ridotto sia per l’anticipo sia per le spese che esso comporterebbe; ciò implica che la flessibilità di scelta del pensionamento sarebbe ragionevolmente accessibile solo ai fruitori delle prestazioni più elevate, la cui riduzione non metterebbe a rischio il sostentamento nell’intera vecchiaia. Per gli altri sarebbe una scelta impraticabile e comunque contraddittoria con le esigenze previdenziali.

Per l’aumento delle pensioni al minimo non è stata pubblicizzata nessuna cifra, ma se solo si volessero dare i famosi 80 euro ai pensionati al minimo sarebbero necessari circa 5 miliardi; pur volendo fare una ulteriore selezione in base agli altri redditi, sarebbe difficile anche solo dimezzare quella cifra, e per finanziarla non si potrebbe ricorrere a prestiti bancari.

E mentre con riferimento alle pensioni si parla di queste «concessioni benevolenti» (i cui fondamentali «dettagli» rimarranno indecifrabili almeno fino alle elezioni amministrative), nel secondo «tavolo» – meno pubblicizzato, ma più caro al governo – l’obiettivo è ridurre il cuneo fiscale. In base a progetti pubblicizzati in tempi recenti da esponenti del governo, continuando a seguire la logica perdente che per aumentare la nostra competitività occorra ridurre ancora il costo del lavoro (e non aumentare la spesa per ricerca, istruzione e investimenti innovativi), si pensa di ridurre i contributi sociali (si parla di 6 punti%) a vantaggio delle imprese, ma con effetti che sarebbero riduttivi per le pensioni (e, dunque, per il salario complessivo) se non ci fosse una piena fiscalizzazione a carico del bilancio pubblico che verrebbe appesantito di circa 2,5 miliardi per ogni punto fiscalizzato: questo onere, insieme agli altri derivanti dal «tavolo» delle pensioni, dovrebbe essere messo a bilancio nella legge di Stabilità da presentare a ottobre alla Commissione europea, in corrispondenza al referendum costituzionale. Considerando che per rispettare le condizioni poste da Bruxelles per la concessione delle clausole di flessibilità sono già necessari 10 miliardi (di minori spese o maggiori entrate), se non cambierà consistentemente l’approccio del governo alla politica di bilancio, sarà difficile rispettare le promesse elettorali di cui si sta (molto liberamente) parlando.