Mi aggiro come una pazza alla ricerca di femmine folli: donne creative che lasciano libero l’estro, esprimono loro stesse attraverso giochi di parole, di colori, di immagini, di visioni. In città, nei teatri, nei libri che leggo, nelle rare nottole appese alle porte a vetri dei bar. Cerco sincerità e approfondimento, messa in gioco e messa in scena, segreti e bugie. Le trovo e non le trovo, mi incaponisco e vado a fondo, scavo, rubo, incespico, pago dazi, riemergo, gratto, sviscero, scovo e scrivo.

Ariane Ascaride è la musa (e la moglie) di Robert Guédiguian, il bravo regista marsigliese di Le nevi del Kilimangiaro (2011) e di Marius et Jeannette (1997), e essere una musa non è missione da poco. Ariane è piccola di formato, un viso semplice da persona qualunque che viene attraversato dalle emozioni come un torrente agitato verso la cascata. Occhioni vigili, sorriso smaliziato, frangetta da ragazza poggiata sulla fronte dove il tempo racconta i suoi anni. I ruoli che le cuce addosso il marito sono di donne forti e fragili allo stesso tempo, combattenti all’ultimo sangue (penso alla madre della ragazza tossica pronta a tutto, persino alla prostituzione, in La ville est tranquille, 2001), compagne fuori dai cliché sorprendenti e selvagge (Marie-Jo e i suoi due amori 2002), semplici nelle origini e complicate nelle esperienze.
Attualmente nelle sale italiane con L’amore non perdona (opera prima di finzione del documentarista Stefano Consiglio) in cui interpreta una donna di mezza età che si infatua e si lascia travolgere da un amore con un ragazzo mediorientale più giovane di lei di trent’anni. La prima volta indimenticabile: pelle morbida, segnata, piena di tracce. Occhi vivi, accesi, densi di esperienze ed esperimenti.

Il piacere è un gelsomino appena sbocciato, due labbra aperte in un sorriso sfacciato, limpido, vitale. Osare un amore a sessant’anni è come osare un bluff a poker con in mano una coppia di nove. Ariane è una giocatrice perfetta, i suoi movimenti sinuosi nella danza, le vibrazioni che percorrono la sua anima escono fuori da ogni particella viva delle sue forme e avviluppano chiunque la guardi.

Luisa Cortesi condivide con Ariane un corpo piccolo e compatto, di grande potenza preparata ad esplodere. La danzatrice toscana ha presentato il suo ultimo lavoro, On the other hand, in unica rappresentazione il 24 aprile, al Teatro dell’Orologio di Roma all’interno del festival EDEN connect the dots.

Trentotto anni ad agosto, un viso da teppista, il corpo agile e veloce di un leprotto in cerca di cibo. Danza da vent’anni, ha cominciato tardi ma ha presto recuperato il tempo perduto (nella compagnia di Virgilio Sieni fino al 2003, frequenta classi a New York con i migliori danzatori del mondo: Trisha Brown, Simone Forti…). Guizza la vita tra le parti del corpo di Luisa: vibra l’energia fatale della quotidianità, la consuetudine della lettura, fare la spesa, dita solletichine, la manualità del mettere in ordine. Come un mimo impazzito si massaggia le natiche, suggerisce le maniere di uomini inesistenti, inconsistenti, inconsapevoli. Si arruota su se stessa come una vite autofilettante, volano i ricci da Medusa, sensuale Menade danzante, ironicamente si acchiappa la mammella, comunica attraverso tableaux vivants come frame in stop motion di un film di animazione. Usa la ripetizione per ribadire, per esaltare, per liquefare la forma e disciogliersi nella bolla d’acqua di un pesce rosso ma nero. Pone l’accento sulla ripetizione gestuale, istintiva e potente, come un meccanismo incantato, un marchingegno magico che non riesce a trovare soluzione a se stesso. Tu che la guardi non puoi distrarti, non riesci a volgere lo sguardo su un dettaglio, cogli la regolarità, il ritmo, la scansione del movimento nelle sue parti più minuscole, quelle dimenticate negli angoli.

Luisa usa il suo scheletro come una partitura incompiuta per pianola meccanica michalkoviana, esce dai contorni, sbava il foglio e riceverebbe un quattro dalla signorina Rottermeier, invece a noi piace, ne rimaniamo incantati, siamo confusi, straniti, attoniti, abbagliati e roteiamo il capo di qua e di là dove il suo scuotersi ci forza ad andare. Volenti o nolenti siamo in suo dominio, schiavi felici nel piacere della visione. Ecco quello che desidero da queste femmine folli: soggiacere al godimento estatico e, vinta dall’emozione, chiudere gli occhi e già ricordare.

Fabianasargentini@alice.it