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«La questione fondamentale è la prescrizione. Mentre sulle intercettazioni si rischia che i rimedi siano peggiori del male, e non mi sembra una priorità rispetto ai problemi della giustizia italiana». Francesco Gianfrotta, presidente della sezione Gip di Torino, in queste ore si interroga – come probabilmente fa tutto il mondo della magistratura – sulle conseguenze di una riforma della giustizia penale che tocchi questi due nodi, centrali per un possibile accordo tra il Pd e il Ncd, in vista del Consiglio dei ministri di dopodomani dove è atteso il pacchetto di provvedimenti a cui sta lavorando da tempo il Guardasigilli Andrea Orlando, oltre al decreto legge sulla giustizia civile. Il ministro proprio questa mattina incontrerà sul tema i partiti di maggioranza e nel pomeriggio le opposizioni.

Ma a via Arenula sono ore decisive anche per la scelta del nuovo capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, posto vacante, dopo Giovanni Tamburino, dalla fine di maggio. Gianfrotta, che dal 1999 al dicembre 2001 è stato direttore dell’Ufficio centrale detenuti e trattamento del Dap, conviene: «Non necessariamente deve essere un magistrato, certo. Ma se nella scelta si seguirà la logica degli equilibri tra correnti politiche, non si farà altro che indebolire il profilo di chiunque verrà scelto – dice – I nomi, in un Paese normale, dovrebbero venire fuori solo dopo aver deciso un programma di riforma».

Intercettazioni sintetizzate e non trascritte completamente; prescrizione bloccata dopo il primo grado; responsabilità civile indiretta ma effettiva delle toghe. La trattativa tra il centrodestra e i democratici sembra sia ferma qui. Che ne pensa?

Il punto fondamentale è la prescrizione: siamo l’unico Paese in cui continua a correre fino alla sentenza definitiva. Perciò ha il mio consenso tutto ciò che va nella direzione di una razionalizzazione, con la cessazione del decorso del termine di prescrizione prima della fine del processo. Su questo la magistratura da tempo ha una posizione unitaria, diversa verosimilmente da quella del ceto degli avvocati. Sulle intercettazioni invece posso dire che sono uno strumento di indagine utilissimo, sulla cui fruibilità ritengono non si debba regredire di un centimetro rispetto alle leggi attuali. Attenzione invece a non introdurre rimedi che siano peggiori del male. Imporre al giudice di sintetizzare il contenuto credo sia una soluzione difficilmente appagante e pericolosa, perché qualunque sintesi espone al rischio di un soggettivismo interpretativo che il testo integrale non presenta. Non ci illudiamo di risolvere così tutti i problemi: potremmo averne creati di nuovi. Altra questione è la divulgazione sulla stampa e sui media…

Che si affronta facendo appello alla deontologia dei giornalisti, e non a quella dei magistrati?

Certamente il problema della fuga di notizie c’è sempre, evidentemente. È un reato, e come tale da perseguire. Ma è anche la cosa più difficile da fare. Più facile è richiedere un po’ di autoregolamentazione da parte della categoria dei giornalisti.

Anche l’Europa ci ha condannato per casi di negligenza da parte di alcuni magistrati. Non crede che qualcosa debba cambiare, nella responsabilità delle toghe?

Non sono convinto: con le attuali leggi lo Stato avrebbe potuto agire in sede di rivalsa più di quanto abbia fatto, come era nelle sue facoltà. Per fortuna abbiamo evitato il rischio di imporre la responsabilità diretta dei giudici, che mi sembra la cosa più stupida che si poteva fare. Se il problema non è la rivalsa ma il risarcimento, l’importante è che qualcuno lo paghi. Ma al di là di questa osservazione generale, chiedo: la responsabilità dei magistrati è la priorità della giustizia oggi?

Sul fronte carcere: l’emergenza sembra finita…

Il sovraffollamento può riprodursi sempre se non si interviene in modo strutturale sul rubinetto, cioè sulle pene alternative. Ma c’è ancora molto da fare soprattutto sull’aspetto della vita detentiva. Qui c’è bisogno di un segno riformatore di ampio respiro, di una svolta culturale. La domanda fondamentale che devono porsi ministro e Dap è: la pena che oggi scontano la maggioranza dei detenuti è utile, come impone l’articolo 27 della Costituzione, o addirittura può essere dannosa?

 Sono convinto che la pena detentiva è utile solo se non è brevissima. Vale la pena per la società affrontare questo alto costo – non solo in termini economici – complessivo del carcere

solo se il tempo di detenzione è sufficientemente lungo per indurre un cambiamento. Al di sotto di una certa soglia è pura costrizione, senza benefici. Se questa è un’idea condivisa, come legislatore punterei a non far scontare il carcere a nessuno. Costruirei un sistema di sanzioni alternative per pene inferiori a una certa soglia, investendo risorse e potenziando gli uffici di esecuzione penale esterna che sarebbero al centro di questa riforma.

E allora chi vedrebbe bene come capo del Dap? I procuratori Slavi e Melillo – i candidati in pole – oppure qualcuno che non sia un magistrato, come Mauro Palma?

Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Sono tre nomi degnissimi, tutti adatti al compito. E tempo addietro sono stati fatti anche altri nomi di persone altrettanto valide. Ma io credo che vada scelto dopo aver deciso un progetto di riforma. Se convergiamo su un modello più responsabilizzante del carcere, come io credo, il capo del Dap deve lavorare per un cambiamento radicale delle condizioni di detenzione. E trasformare il carcere in una pena utile.