I tre grandi gruppi presenti all’Europarlamento (Ppe, Liberali e Spd, con la sola eccezione dei socialisti spagnoli) hanno approvato ieri la nuova Commissione Juncker, che ha invece ricevuto il voto contrario della sinistra unita, dei Verdi e dell’estrema destra. Juncker, ben consapevole di presiedere un esecutivo che rappresenta l’ultima chance per un’Europa in crisi, cerca il difficile punto di equilibrio, tra la riconferma del Fiscal Compact, che “non si cambia” perché “bisogna abbandonare l’idea che si possa crescere con deficit e debito” e la promessa di 100 giorni di fuoco, con già “prima di Natale” dei dettagli sul piano di rilancio di 300 miliardi. Ma Juncker ha messo i paletti: non ci sarà “indebitamento supplementare”, ma una “utilizzazione intelligente dei crediti pubblici” assieme alla necessità di “stimolare” l’investimento privato.

Ma prima, la vecchia Commissione Barroso non ha finito di dire la sua: ieri, cinque capitali aspettavano la lettera da Bruxelles, con i dubbi sulle rispettive finanziarie. Italia e Francia, con Austria, Malta e Slovenia, sono sotto esame. “Potrebbe anche essere solo una domanda di chiarimenti su alcuni punti” ha attenuato il portavoce di Jirky Katainen, commissario agli affari economici, che sarà sostituito dal socialista francese Pierre Moscovici. Ma potrebbero esserci richieste anche più impegnative, di modifica del bilancio, per i paesi che sfondano i parametri. Barroso lascia un pessimo ricordo di se stesso e un’Unione europea al punto più basso. C’era solo uno sparuto gruppetto di popolari ad assistere, mertedi’, al discorso di addio dell’ormai quasi ex presidente, che, come ha riassunto il francese Patrick Le Hyaric (Pcf), “si è accanito a far odiare l’Europa”. Barroso, che adesso manovra per ottenere qualche altra carica internazionale (alla Nato o all’Onu), non si è sentito in dovere di fare allusione alla disoccupazione che sta distruggendo la fiducia nell’Europa: era andato al potere nel 2005, dopo il doppio “no” dei referendum sul Trattato costituzionale di Francia e Olanda e lascia una Ue dove l’estrema destra eurofoba è cresciuta a dismisura, con la zona euro minacciata di deflazione.

La nuova Commissione nasce “sotto dei buoni auspici” vuole sperare il presidente dell’Europarlamento, Martin Schultz. Ma per il Verde, Philippe Lambers, ha individuato delle “priorità sbagliate” e per la deputata della Gue, Gabi Zimmer, “non è politicamente adatta a cambiare rotta” in Europa. Juncker ha fatto gli ultimi ritocchi per rendere l’esecutivo più presentabile, togliendo la delega alla cittadinanza all’ungherese Tibor Navracsics, contestato dal mondo intellettuale europeo, e spostando la competenza sull’industria farmaceutica, dall’Industria alla Salute. Juncker ha solo trovato “ridicolo” che ci siano solo 9 donne su 28 commissari.

Oggi a Bruxelles i capi di stato e di governo si riuniscono, con all’ordine del giorno il pacchetto Energia-clima 2030, la cui approvazione era stata rimandata la primavera scorsa. In continuità con il programma in atto fino al 2020, il nuovo obiettivo dovrebbe essere una riduzione di CO2 del 40% entro il 2030 (rispetto al 1990), un peso delle rinnovabili al 27% e un miglioramento del 30% dell’efficacia energetica. Ma le tensioni sono fortissime tra i vari paesi, ci sono in gioco grandi interessi economici e troppe differenze tra i 28, tra i nordici che sono già più avanti e l’est, che frena, con Francia e Germania che finora hanno fatto scelte energetiche molto distanti. Sul tavolo del Consiglio ci sarà ancora evidentemente la questione del rispetto dei parametri, con Italia e Francia tra i principali imputati.

In Francia – come in Italia – lo scontro politico è all’apice attorno alla finanziaria 2015. Il primo ministro, Manuel Valls, in un’intervista che esce oggi sul Nouvel Observateur attacca frontalmente la “fronda” socialista contestatrice, a cui si è unita Martine Aubry e propone la messa a morte della “sinistra passatista”. Valls vuole un nuovo partito “riformista”, che abbandoni anche il nome “socialista” per poter riunire tutte le “forse progressiste”, cioè anche i centisti del Modem. L’affondo di Valls è la risposta all’astensione, martedi’, sulla parte “entrate” della finanziaria 2015 da parte anche di ex ministri Ps, Benoït Hamon, Aurélie Filippetti e Delphine Batho. Il voto è passato per poco (266 a favore, 245 contro, 67 astensioni) e il governo è minacciato dall’ampiamento della “fronda” a sinistra, che chiede un ri-orientamento della politica economica, mentre il governo prevede tagli alla spesa pubblica per 50 miliardi in 3 anni (21miliardi nel 2015). Lo scontro è tale, che è stato chiesto ad Hamon, che era ministro dell’Educazione nazionale fino al 25 agosto scorso, di lasciare il partito socialista. La sindaca di Lille, Martine Aubry, nel fine settimana è scesa in campo dopo più di due anni di silenzio, per presentarsi come un’alternativa a Valls: Aubry chiede di dimezzare gli aiuti alle imprese, destinando 20 dei 40 miliardi del Patto di responsabilità per stimolare la domanda delle famiglie.