L’odierna babele sociale, i drammi e le tragedie nei nostri mari e nelle nostre case, i reboanti bollettini di cronaca e di politica interna, europea e internazionale squassano cuore e mente con il risultato di acuire le lacerazioni del vivere e offuscare la percezione del presente, sicché allo smarrimento interiore e al disordine esterno si reagisce ora con la lamentela ora con la concitazione volta a sanare tutti i mali del mondo ora con un torpore al limite del cinismo o con un’apatia devastante. (…) In simili frangenti, mi pare di comprendere il «sentimento di collera e di vergogna» che assalì nel 1931 Simone Weil nei confronti del suo Paese durante la visita dell’Esposizione coloniale di Parigi e di cui riferisce non solo negli scritti sulla questione coloniale ma anche nelle riflessioni di Londra volte a ridefinire la riorganizzazione politico-istituzionale della Francia nell’Europa postbellica e a pensare una civiltà che metta al centro l’umano.
Per chiunque desideri orientarsi nel subbuglio odierno la sua opera può essere una guida e una bussola ma solo se ci si predispone all’apprendimento di una nuova lingua «capace di cogliere pensieri inesprimibili» e all’addestramento a un’arte della politica produttrice di cambiamenti non fittizi nel modo di abitare e condividere il mondo.
La frequentazione e l’interrogazione dei suoi scritti impongono un ripensamento radicale della condizione umana e della questione sociale a partire da sé, e questo ripensamento nella vicenda di vita e di pensiero di molte donne e uomini, compresa la mia, interseca da più decenni la pratica politica delle relazioni legata all’avvento della libertà femminile. Non per caso richiamo dunque il titolo del volume del 1987 della Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, che riprende un’annotazione di Weil del 1941: «Non credere di avere dei diritti. Cioè, non offuscare o deformare la giustizia, ma non credere che ci si possa legittimamente aspettare che le cose avvengano in maniera conforme alla giustizia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giusti. (…) Bisogna sempre aspettarsi che le cose avvengano conformemente alla gravità, salvo intervento del soprannaturale. Bisogna essere riconoscenti se si viene trattati con giustizia. Inversamente, non bisogna mai cercare di fare al prossimo altro bene che trattarlo con giustizia».
Queste parole ribaltano il modo comune di pensare e di operare fondato sulla assolutizzazione della persona e dei diritti che sfocia inevitabilmente nel contagio della vertigine individuale e collettiva – questione messa a fuoco nello scritto La persona e il sacro (1943); esse sottraggono terreno alla presunzione di quanti si arrogano il vanto di poter appagare l’anelito di giustizia di chicchessia facendo appello a rivendicazioni che hanno il difetto di essere illimitabili. Anche se il mondo umano è governato da quella stessa forza bruta indifferente al bene che governa l’ordine naturale, esso è l’unico strumento del bene a nostra disposizione (…).
Questa aspirazione è un atto d’amore perché comporta la rinuncia a occupare il centro del mondo e a esercitare il potere di cui si dispone; è un atto libero al quale si aderisce con la facoltà del libero consenso, ma è un atto che si compie solo in fedeltà alla propria «vocazione soprannaturale» perché implica lo smascheramento di ogni illusione legata alla persona e al prestigio sociale e l’uscita dalla prigione dell’io (…).
Quanto alla conoscenza del sociale, la società è per Weil un grosso animale potente, e i nostri gusti e avversioni riflettono ciò che alla bestia piace o non piace: giudichiamo belle e giuste le cose necessarie perché non sappiamo vedere né mostrare a noi stessi e agli altri la netta separazione tra essenza del necessario e essenza del bene, dato che dipendiamo dal prestigio sociale che è pura illusione. Soltanto l’esperienza della costrizione brutale e quotidiana, come quella da lei vissuta in fabbrica, o l’esperienza della guerra, nel suo caso in Spagna, o l’esperienza dello sradicamento estremo dovuto all’ingiustizia e alla degradazione sociale ci induce a riconoscere che tutto ciò che si ha nell’anima – pensieri, sentimenti, il senso della propria dignità – è al pari di un’onda nel mare in balìa delle circostanze. D’altra parte, un ordine sociale, benché «essenzialmente cattivo» in quanto dominio della forza, è necessario; ebbene, in questo mondo l’imperio della forza non è illimitato, essa trova il suo limite invisibile nella giustizia, che è «la promessa visibile e palpabile su questa terra, il fondamento certo della speranza», «la sovranità della sovranità» (La prima radice, 1943). Essa si invera ogni volta che «un forte e un debole ammettono con tutta l’anima che è meglio non comandare ovunque se ne abbia il potere» (Forme dell’amore implicito di Dio).
La giustizia non è di questo mondo ma qui e ora a ogni essere umano è data la libertà di non aderire all’apparenza di giustizia, la giustizia menzognera, e di trattare l’essere diverso da sé con giustizia, vale a dire anzitutto non fargli del male, battersi perché si ponga cura e rimedio a tutte le ferite, privazioni e offese suscettibili di distruggerne o mutilarne la vita terrestre e si provveda al soddisfacimento dei bisogni terrestri del suo corpo e della sua anima (Studio per una dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, 1943). Inoltre, e non secondariamente, trattarlo con giustizia equivale a sapersi tenere alla giusta distanza, non assimilarlo né addomesticarlo, rispettarne il libero consenso – essenziale all’amore perché non si trasformi in stupro, e essenziale all’obbedienza perché non si trasformi in oppressione (Lottiamo per la giustizia?, 1943).
Questa autentica apertura alla differenza permette di udire il grido muto emesso dalla parte impersonale di ogni creatura terrestre «Perché mi viene fatto del male?» cui abbiamo l’obbligo incondizionato di rispondere con il calore, la comprensione, l’accoglienza in un ambiente vitale, con una politica fondata sull’amore per la vita nella sua fragilità e nella sua vulnerabilità. Essa è un’energia trascendente che si converte in azione e in un mutamento reale che si irradia nel mondo. I suoi frutti, attesi ma non desiderati, sono analoghi ai doni che riceviamo in uno sprazzo di compassione o di gratitudine, nella contemplazione dell’aurora, in un lampo di genio, nella recitazione di una preghiera o di una poesia amata, in ogni sosta dalla distrazione e dalla dissipazione.