Quali erano i pensieri, le idee, i sogni di Paola, bracciante morta di fatica – cioè di lavoro secondo la lingua del sud – tra le vigne di Trani? E cosa pensano, desiderano, sognano i dipendenti Ikea che fanno scioperi inediti in tutta Italia, con la solidarietà dei clienti? Cosa c’è nella loro mente? C’è l’idea di un mondo dove ci sia più giustizia? Coltivano concrete speranze di poter cambiare le loro condizioni di vita? Su chi fanno affidamento? Naturalmente oltre i sindacati?

Rischio volutamente la retorica, nell’accostare l’arcaico caporalato e la moderna precarietà multiforme, esperienze contemporanee di cui gli esempi si potrebbero moltiplicare, tutti accumunati da un salario orario indecente, o sempre più basso. La retorica sparisce se rovescio la domanda: la sinistra ha in mente Angela, i suoi compagni di lavoro, o i dipendenti dell’Ikea? Pensa, la sinistra, immagina, progetta come affrontare, risolvere i problemi della vita di queste persone? Il modo per proteggerle dalla ferocia del capitalismo neo-liberista? Strade percorribili, anche audaci, conflittuali, perigliose, e perché no, rivoltose, ma che permettano di intravedere modi diversi di vivere?

La risposta è brutale: no, da molto tempo questo non avviene. E questo è il nodo cruciale del dibattito aperto da Norma Rangeri e dal manifesto: l’incontro mancato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in condizioni di vita sempre più dura, – chi non riesce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è precario, precari della conoscenza che mantengono con il loro lavoro semigratuito università, centri di ricerca e sistemi di informazione – se ci sono, desideri e speranze, difficilmente si chiamano “sinistra”. E dall’altra parte i progetti di chi dovrebbe aprire lo spazio di elaborazione e di pratiche politiche che a quelle menti possano parlare, dare respiro e speranza.

Non interessa, qui, fare l’analisi delle responsabilità. Fermarsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi criminale. Non c’è vita, nella recriminazione e nel rancore. E lo dico da femminista quale sono, sempre più sgomenta nel constatare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini– di riconoscere il peso, l’influenza, l’acutezza della critica femminista alla loro politica, e che incapaci come sono di accoglierla esplicitamente procedono come se nulla fosse successo. Certa che questo muro di silenzio sia parte del problema, della difficoltà di mettere a fuoco visioni ampie, inclusive, e nello stesso tempo convinta che anche il femminismo sia implicato, nel vuoto che ci affligge.

Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fissate troppo sull’obiettivo paritario, così facilmente fatto proprio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occidente, alla libertà femminile, avesse spinto a chiudere gli occhi su quanto avviene. Come se per esempio il feroce aumento della diseguaglianza economica non riguardasse le donne. Che ne sono le prime vittime, sotto molteplici aspetti, dallo sfruttamento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo femminile, della riproduzione. Anche da parte di altre donne.

Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione efficace, aiuta a prendere coscienza della pesantezza delle condizioni di vita, o a recuperare forme di auto-organizzazione come il mutualismo, ricostruendone il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica contemporanea del “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in braccio, dietro e di lato a un uomo, a uomini che combattono in prima fila. Dove sarebbero le donne? E gli stessi uomini? E i bambini? E questi, di chi sarebbero figli?

Non sono dettagli fuorvianti. Come non capire che questo quadro mutato e mutante è parte essenziale di ciò che va pensato, anche nel mettere a fuoco nuovo forme organizzative? Che il nodo delle relazioni non è una questione parallela, ma centrale? Sia nella valorizzazione di poteri alternativi sia nel creare coesione, per reggere lo scontro violento. Perché sono l’oggetto dei processi di riorganizzazione in corso ad opera di un capitalismo neoliberista che nella vita entra senza ritegno, e la rimodella a proprio piacimento.

Esattamente come agisce per la ridefinizione- distruzione di democrazia. Nel quadro delle istituzioni, europee e non solo. Fanno parte di un unico disegno di comando che va combattuto.

Di questo si dovrebbe parlare, se si parla di vita a sinistra. Se si vuole entrare nella breccia che Alexis Tsipras con grande lucidità politica continua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calendario di impegni tra movimenti e organizzazioni fino a novembre, che il gesto del dirsi “siamo qui, partiamo”, sia rapido, veloce, quasi noncurante. Come chi sa che non c’è nulla da esaltare, in effetti. Che organizzarsi non è occuparsi di sé. L’urgenza è mettersi in grado di aprire spazi e pensieri, liberare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.