«Mentre l’assurdità della realtà si disperde nella vastità dei continenti, sull’isola essa è evidente». Precedente a una simile certezza c’è il ragionamento che Judith Schalansky, scrittrice tedesca trentacinquenne che ha già all’attivo alcuni libri, ha costruito intorno al suo Taschen – Atlas der abgelegenen Inseln (mareverlag 2009), tradotto da Francesca Gabelli per Bompiani un paio di anni fa. Recentemente pubblicato in edizione tascabile ma non meno preziosa, L’Atlante delle isole remote (pp. 235, euro 15) è un lavoro di documentazione e invenzione rispetto cinquanta isole trovate sulle carte geografiche.

Come tutte «le figlie dell’Atlante», Schalansky dichiara di non aver potuto raggiungere i luoghi immaginati nelle pieghe cartografiche consultate durante gli anni di studio; tuttavia ha aguzzato fantasia, ingegno e poetica degli spazi per restituire un tragitto magnifico e desueto che racconta di posti lontanissimi e difficili da visitare. Per alcuni di essi valgono le storie che Schalansky ha letto avidamente in biblioteca; diari di viaggio e resoconti esplorativi non sono tuttavia vicende che si ritrovano intere nel bisogno di comporre un censimento immaginifico. La scrittrice ha studiato infatti i vari pionieri ed esploratori che si sono succeduti nei secoli, ma esorta alla diffidenza in ciò che ha potuto ricucire. Accanto ai dati, il primo avvistamento, le distanze minime e massime dalle altre terre, si possono conoscere i tempi della colonizzazione, le controversie dell’espropriazione e dei massacri.

Eppure in questi cinquanta brevi racconti, crudeli come lo sono solo i luoghi che vogliono restare inaddomesticati, l’autrice non aderisce totalmente a ciò che è già stato registrato dalle fonti; spera invece di incrociare l’evidenza della realtà. Si rapprende attorno ad animali bislacchi e insediamenti – quando ce ne sono – di poche anime o ci trasporta in fazzoletti terrestri fortunosamente riemersi dall’ultima eruzione vulcanica. Non descrive ciò che le è estraneo con sguardo esotizzante e proprietario ma con vivido desiderio di toccare, palmo a palmo, ogni pietra e ogni angolo con gli occhi della mente libera e della letteratura. Solcando gli oceani e giocando con l’assurdità non dei luoghi e di chi li abita ma di chi li ha voluti conquistare una volta per tutte. Dall’isola di Pasqua e di Pukapuka a quella degli Orsi, del Cocco, di Floreana e di Semisopochnoi, una sequela di onomatopee dotate di un puntuale apparato iconografico, diventano rotte da indovinare e ricollocare, al di là dei battesimi da parte di chi, arrivato lì per primo, le ha scelte come traccia indelebile di sé. Al contempo intrecciate da destini improbabili, non è strano che l’autrice di un atlante di isole remote abbia scritto poi Der Hals der Giraffe (Surkhamp) ora tradotto da Flavia Pantanella in Lo splendore casuale delle meduse (Nottetempo, pp. 258, euro 16,50).

Judith Schalansky conferma in questo romanzo la curiosità verso le intersezioni fra scienza, iconografia e letteratura e prosegue idealmente la narrazione di altre isole, questa volta monadi alla ricerca della sopravvivenza in un minuscolo paesino dell’ex Rdt. Anche Inge Lohmark, insegnante di biologia, è simile a una zolla di terra in mezzo al mare. Per solitudine, intransigenza e incapacità di empatia alcuna, è una donna dai margini sentimentali inespugnabili. Riesce a infervorarsi solo quando spiega alle e agli studenti che «L’esistenza non è una lotta, è un peso, un fardello da portare. In un modo o nell’altro. Un compito, fin dal primo respiro. Come esseri umani si è sempre in servizio. Non si muore mai di malattia, ma di passato. Un passato che non ci ha preparati a questo presente». È una donna capace di speculare unicamente di specie, Inge, di parassiti e necessità gerarchiche di annientamento. Il suo tessuto relazionale è disastrato, il marito l’ha abbandonata e la figlia partita per la California non si fa sentire da moltissimo tempo. E intanto lei, attraverso la lingua tagliente di Schalansky, si fa una ragione di ogni cosa, attraverso soluzioni darwiniste e adattive.

La natura non sopporta il vuoto, e la sua selezione è l’unica certezza per Inge Lohmark, il diritto all’autorealizzazione è quindi pretesa ridicola poiché «niente e nessuno è giusto. Figuriamoci una società». A poco valgono le obiezioni dei suoi colleghi: «E va bene, Lohmark. La tua genetica capitalista e filoamericana infatti ha avuto la meglio». L’assetto biologico della professoressa non determina solo la perfezione della simmetria radiale, gli sbalzi ormonali e le reazioni chimiche dove tutto ciò che non è misurabile è solo un disordine secretivo; è piuttosto giustificazione di un luogo disperso nella Pomerania Anteriore dove l’utopia è arrivata al capolinea. Dove l’unico metodo congruo per scongiurare la presa in carico della memoria è la creazione di sudditi obbedienti. Di questa cittadina nessun pioniere ha mai desiderato sorvolarne la superficie, sono perimetri privi di profitto e intorno a cui è impossibile fantasticare paradisi tropicali perduti. Eppure sono altrettante isole che Schalansky racconta come fortezze di ingiustizia e miseria, quelle in cui l’assurdità della realtà è forse inghiottita nella vastità dei continenti ma non per questo è meno aspra e dolente da interrogare.