Il dibattito filosofico degli ultimi decenni è stato molto condizionato dalle tesi di Karl Löwith, secondo le quali la moderna filosofia della storia e la sua idea di progresso risulterebbero dalla secolarizzazione dell’escatologia cristiana, in antitesi alla concezione ciclica della temporalità dominante nel mondo classico. Filosoficamente raffinata e rigorosamente argomentata, l’ampia sintesi di Löwith offre così un solido fondamento alle idee dei critici liberali o conservatori dell’illuminismo – da Carl Becker a Carl Schmitt, da Jacob Telmon a Leo Strauss, ma si potrebbe risalire fino a Burke e a De Maistre – per i quali tutti i tentativi di riforma o di rivoluzione sociale dell’età moderna, da Thomas Müntzer a Lenin, da Comte a Mao, in quanto pretese di realizzare il paradiso in terra, sono state imprese tanto fanatiche quanto per lo più sanguinarie, comunque votate al fallimento.

Nel modello storiografico di Löwith sembrerebbe inquadrarsi perfettamente Le Rovine, ossia meditazione sulle rivoluzioni degli imperi, del 1791, certo l’opera più famosa, se non il capolavoro, di Volney, non più edito in italiano dal 1862 e di cui esce ora una nuova traduzione a cura di Andrea Tagliapietra e Marco Bruni (Mimesis, pp. 316, euro 28,00), un libro al cui proposito è irritante, proprio perché inevitabile, dover ricordare lo scempio perpetrato dall’Isis a Palmira, come già in altri siti archeologici: tanto più inevitabile, in quanto lo scritto è una riflessione che si finge suscitata dalla visione delle rovine di Palmira e che denuncia nella superstizione religiosa, cui si devono appunto quelle distruzioni, uno dei mali dell’umanità.

Tutto ciò potrebbe far pensare che i curatori abbiano scelto di dedicare la loro attenzione al testo sollecitati dalla sua inattualità, piuttosto che dalla cronaca odierna: il libro è infatti una espressione compiuta di quella filosofia umanista e di quella fede nel progresso (o, come si diceva allora, nella perfettibilità dell’uomo), oggi largamente screditate. In realtà, sia l’introduzione di Tagliapietra sia la postfazione di Bruni si preoccupano soprattuto di inquadrare l’opera nella tradizione filosofica, tramite fittissimi riferimenti, che spaziano da Platone a Benjamin, da Aristotele a Rousseau: se in tanta abbandanza è inevitabile che si insinuino errori (l’attribuzione del De ira Dei di Lattanzio a un inesistente Cecilio Firmico Materno è una svista, ma più grave è l’affermazione che nel Sublime dello Pseudo-Longino si celebrerebbe Palmira come «luogo emblematico della sublimità»), dispiace che Volney ne resti un poco schiacciato.

Constantin-François Chasseboeuf, che avrebbe poi preferito chiamarsi Volney è, infatti, insieme al coetaneo Pierre Georges Cabanis e a Destutt de Tracy, tra i maggiori esponenti degli idéologues, cioè del movimento politico-culturale che tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, guidò quello che Sergio Moravia ha chiamato «il tramonto dell’illuminismo» e Michel Delon la «svolta» (le tournant) dei lumi. Dopo aver studiato storia e linguistica a Parigi, desideroso di completare la sua formazione, a ventisei anni, con il denaro di una modesta eredità, Volney decise di intraprendere un viaggio in Egitto e in Siria, dove imparò l’arabo e dove restò dal 1783 al 1785, spesso condividendo la misera esistenza dei pastori o dei contadini che lo ospitavano. Il suo fu, insomma, un viaggio profondamente diverso da quelli compiuti sia dai predecessori (come gli inglesi James Dawkins e Robert Wood, che pubblicarono nel 1753 e 1757 due volumi dedicati alle rovine di Palmira e di Balbec), sia da chi avrebbe ripercorso il suo itinerario dopo di lui. Glielo riconosce Sainte-Beuve, che pure non lo amava: «dove andranno Chateaubriand come un cavaliere e gentiluomo, Byron come un gran signore, Lamartine come un principe e un emiro, Volney si propone d’andare con il solo bastone da viaggiatore».

Al ritorno in Francia, nel 1787, pubblicò un resoconto del suo viaggio (Viaggio in Egitto e in Siria: 1783-1785, traduzione, a cura di Sergio Moravia, Longanesi, 1974), che riscosse un lusinghiero successo e che resta una delle sue opere maggiori: la campagna d’Egitto – dal 1798 al 1801 – avrebbe dimostrato come solo il libro di Volney offrisse un quadro efficace e veritiero della società mediorientale, e ciò proprio per le ragioni che lo avrebbero reso sgradito a Sainte-Beuve, vale a dire per la dichiarata intenzione di non mettersi in mostra, di non raccontare mai le proprie emozioni, ma di lasciar parlare i dati geografici, etnografici, storici, raccolti con scrupolo documentario.

Volney affidò invece le sue riflessioni, nel 1791, a Le Rovine: il fatto è che nel frattempo era scoppiata la rivoluzione, a cui l’ideologo partecipò in prima persona, prima come autore di pamphlets e di un giornale – La Sentinella del popolo – in vista della convocazione degli Stati Generali e poi come deputato del Terzo Stato alla Costituente. Le Rovine è un libro politico: Starobinski, trattando del grande tema iconografico delle rovine che da Poussin, Lorrain, Magnasco, approda a Giovanni Paolo Pannini, a Hubert Robert e alle visionarie incisioni di Piranesi, ha scritto giustamente che Volney spoetizza le rovine. Le spoetizza, si potrebbe chiosare, perché le politicizza.
Nel libro lo scrittore si mette in scena nei panni di un viaggiatore europeo che, seduto alla sera fra i resti di Palmira, si interroga sulle ragioni del declino delle grandi civiltà del passato, con il rovello di un dubbio facilmente intuibile (un dubbio che ancora oggi ispira tutto un filone fantascientifico): anche la nostra civiltà finirà in questo modo? Compare un genio, allora, che risponde ai timori del viaggiatore presentando un quadro storico in cui si imputa la decadenza delle società umane agli errori degli uomini, e più specificamente al nefasto influsso della superstizione religiosa, causa ed effetto al tempo stesso della tirannide politica.
L’apparato formale non è originale: qui da noi, per esempio, negli stessi anni, Alessandro Verri nelle Notti romane mette in scena i dialoghi tra i fantasmi di grandi eroi romani che appaiono al visitatore del sepolcro degli Scipioni, mentre Foscolo nei Sepolcri rievoca Omero che interroga le rovine di Troia; quanto all’espediente utilizzato dal genio – trasportare il viaggiatore in cielo per mostrargli dall’alto il globo terrestre – sarebbe impossibile elencare i numerosi precedenti (basti ricordare, tra i più nobili, il Leibniz dei Saggi di Teodicea e, ovviamente, il Voltaire di Micromégas). Specifiche sono invece l’aperta presa di posizione a favore della rivoluzione francese, presentata come l’evento che apre al nuovo secolo come a un’era di pace e di prosperità, e l’aggressiva irreligiosità, che si richiama alla coeva ampia sintesi di Charles François Dupuis, L’origine de tous les cultes, ou la religion universelle di cui Destutt de Tracy non disdegnò di farsi divulgatore. È questo l’aspetto che impedisce di interpretare pacificamante Le Rovine alla luce di quello che Hans Blumenberg ha chiamato, criticandolo come riduttivo della modernità, il «teorema della secolarizzazione».

Si può non essere d’accordo con le tesi di Volney, le si può giudicare filosoficamente rozze e pesantemente compromesse con un’idea, l’idea di progresso, oggi assai screditata; ma costringere Le rovine nel quadro del modello storiografico di Löwith rischierebbe di far perdere di vista quella elementare forma di rispetto per qualsiasi testo filosofico che consiste nello sforzarsi di comprenderlo, almeno in prima battuta, alla luce del metodo che esso stesso propone: com’è possibile interpretare in chiave di secolarizzazione un testo che pretende di descrivere il processo esattamente opposto, vale a dire la genesi e lo sviluppo di quelle stesse idee religiose di cui sarebbe solo una versione laicizzata?

È tale la pretesa di risalire alle origini della religione che bisognerebbe mostrare come si tratti del risultato di una secolarizzazione della concezione cristiana della storia: impresa non impossibile forse, ma certo non semplice, tra l’altro perché la convinzione, cui aderisce Volney, che le religioni hanno origine della paura e dell’ignoranza risale all’antichità classica, tanto che è attestata, per esempio, in Petronio e in Stazio la massima famosa del primus in orbe deos fecit timor che ha ispirato tutto il moderno pensiero ateo. Sarebbe dunque auspicabile che il libro di Volney potesse contribuire ad approfondire il dibattito sulla secolarizzazione.