Mani sapienti ed esperte si muovono meccanicamente negli arzigogoli dei fili tesi, le dita veloci fanno passare i fusi sopra e sotto intrecciando maglie ed allungando il tessuto. Sono le donne albanesi di Scutari, città al nord dell’Albania, che ancora usano i telai in legno per la tessitura a mano. Normalmente i capi consistono in tovaglie, salviette, copriletti, coperte, lenzuola, centrotavola, tappeti, foulard … Si ha l’impressione di essere trasportati in un tempo lontano, scomparso dall’immaginario dell’uomo contemporaneo occidentale, in epoche della prima industrializzazione.
Tirana è distante solo 100 km, nel nord non si avvertono minimamente i benefici del boom economico della capitale. La disoccupazione è alta a Scutari, qualcosa si riesce a trovare nell’edilizia, chi ha la fortuna di possedere un’auto può usarla come taxi collettivo per trasportare le persone a Tirana, ma anche in questo caso il lavoro è saltuario e gli uomini si ritrovano a parlare nei bar o in casa aspettando che le cose cambino.
Djana Mieda porta avanti una tradizione familiare iniziata con la sua bisnonna nella casa di famiglia che ha ereditato. La bisnonna impiegava circa 50-60 donne, molte lavoravano da casa una volta che avevano il modello e il disegno del capo da tessere. Di quel tempo è rimasto poco, solo 8 telai riposti in una stanza a pianterreno dove donne provenienti dall’entroterra vengono impiegate per “velocizzare” la produzione di Djana. La Mieda illustra un altro lato della medaglia: “Scutari e la regione circostante sono tra le più povere dell’Albania, la disoccupazione è altissima e spesso gli uomini non riescono a mandare avanti la famiglia, così sono le donne che contribuiscono al reddito familiare con lavori saltuari. Normalmente do lavoro a sei operaie, ma se c’è maggiore richiesta di produzione ne impiego quasi una dozzina”. La maggior parte delle impiegate ha un’età media sui 50 anni, molte lavoravano nelle fabbriche comuniste ormai chiuse per sempre, hanno perso il lavoro tempo fa ma grazie a Mieda ne hanno imparato uno nuovo. Non avrebbero possibilità di lavorare in altri posti, neanche nelle fabbriche tessili che molte ditte italiane hanno aperto recentemente nella zona intorno a Tirana, perché richiedono turni massacranti anche di 10 ore continuative senza pausa e con un salario malretribuito. “Non è stato facile!”, continua Mieda, “A parte una donna che conoscevo e che lavorava con mia zia nelle cooperative comuniste, ho dovuto insegnare alle altre ex-novo il lavoro al telaio”.
Djana collabora anche con il Ministero delle Politiche Interne per la formazione di giovani lavoratrici nel tessile, afferma che molte di loro non sono entusiaste perchè vorrebbero monetizzare più velocemente il proprio lavoro e, inoltre, non mettono passione nell’attività, requisito che invece ha sempre caratterizzato il lavoro di Mieda. Lei ha collaborato anche con Reflexione a Tirana, Rafaza e con il Centro Donne a Scutari per il re-inserimento sociale di donne che hanno subito violenze domestiche, perché l’autonomia economica costituisce uno dei primi passi fondamentali per raggiungere l’indipendenza dal compagno violento.
Il lavoro non è dei più semplici e implica uno sforzo fisico non indifferente. Quattro donne devono stendere sul muro esterno per decine di metri i fili, a volte più di mille, devono far in modo che non si intreccino per evitare che una volta inserita la maglia nel telaio non si incrocino falsando il disegno finale. Il ritmo al telaio è ripetitivo e meccanico, ci vuole molta concentrazione per evitare di sbagliare i colori e i ricami. Il capo finale ha una finezza e una qualità che le macchine industriali non riescono ad ottenere, una resistenza che dura negli anni e non soggetta alle leggi dell’usura che il consumismo globalizzato pretende per sostituire e fabbricare prodotti incessantemente, perché la vita breve di un oggetto è alla base della produzione e del commercio internazionali.
Il lavoro inizia alle 8 del mattino e termina alle 16, le donne fanno delle pause durante la giornata. A volte, quando ci sono tanti ordini, fanno gli straordinari fino a 10 ore. Un’operaia riesce a produrre circa 4 metri al giorno. Nessuna si lamenta perché qualche soldo in più al mese può fare una grande differenza. Certo, non ci sono vincoli o diritti sindacali, ma la coesione tra le donne in questo caso è molto più forte ed efficace di qualsiasi rappresentante sindacalista, sebbene, non esistano scudi sociali che proteggano dai periodi di disoccupazione.
I prodotti non hanno una distribuzione semplice. Spesso ad acquistarli sono clienti benestanti di Scutari o di Tirana, o qualche rappresentante diplomatico, ma per la maggior parte le vendite vengono effettuate alle fiere tessili o nei mercatini in strada a Scutari durante le festività. “Non vendo nei negozi perché rincarano troppo sul prezzo e il ricavo è tutto loro. Una tovaglia con tovaglioli costa €40, circa €30 sono per le spese e per pagare le operaie, mentre i negozi a Scutari la vendono a €60/70 per non parlare di Tirana!”, afferma Mieda contrariata. Continua: “Sono tutti prodotti fatti a mano con cotone al 100%, l’acrilico viene usato solo per alcune coperte tradizionali di colore rosso e bianco che vengono usate nel giorno in cui uno dei coniugi viene a mancare. Secondo l’usanza cristiana albanese, ancora molto forte nel nord paese, il coniuge deve stendere la coperta sotto il corpo del defunto”.
Djana collabora con Libn, una donna di Zogaj, un villaggio vicino a Scutari che si affaccia sul lago omonimo. Libn produce tappeti di lana tessuti a mano dal periodo del comunismo e ha 20 operaie al suo servizio. Nel villaggio le donne non possono fare nessun altro lavoro, non ci sono campi da coltivare o uffici pubblici, l’altra attività possibile, prettamente maschile, è la pesca. Libn prende la lana dagli allevatori della provincia di Scutari, la lava, la fila e la tinge con colori naturali, usando ad esempio la buccia della cipolla o delle noci. Le donne di Libn realizzano prevalentemente modelli tradizionali, ma anche disegni nuovi su richiesta di hotel e di ristoranti. Per tessere un tappetto di 3 m x 2,5 m ci vuole il lavoro incessante di quattro donne per 2 settimane. “È una tradizione di famiglia che dura da circa 300 anni”, dice orgogliosa Libn.
Djana afferma amareggiata: “Forse con il tempo questa tradizione sarà abbandonata, purtroppo si coprono appena le spese e rimane solo quel poco per tirare avanti. Mia figlia si sta laureando in matematica e non so se proseguirà le mie orme. A volte devo prendere dei prestiti dalle banche per poter comprare il cotone, non solo perché il prezzo aumenta continuamente, ma anche perché il venditore all’ingrosso mi impone di comprare uno stock minimo di €2.000 che in Albania sono un’enormità!”.
Anche Kristina Nindozi lavora nel tessile da quando aveva 14 anni, dalla caduta del comunismo è diventata la sua attività. Dapprima ha iniziato da sola, poi è riuscita ad impiegare altre donne che volevano mantenere la tradizione e che permette loro di guadagnare qualcosa. Ha imparato a ricamare dalla nonna, usa gli stessi suoi strumenti, il telaio con il quale lavora ha circa 80 anni. Kristina, come Djana, compra il cotone dall’Italia (da Prato in particolare dove molte ditte sono fallite per via della crisi economica) perché con la chiusura delle fabbriche statali non c’è più produzione locale in Albania, quella rimasta ha costi proibitivi.
Kristina usa Facebook per vendere e mostrare le sue opere. Fa parte dell’associazione degli artigiani di Scutari. Come Djana aiuta le donne del quartiere fornendo loro lavoro e corsi di formazioni continuando un legame con la tradizione. Dà lavoro a tre donne del quartiere e ad altre due dei villaggi intorno a Scutari, la fascia di età varia dai 30 ai 60 anni. Porta loro i capi da cucire direttamente a casa o li commissiona tramite telefono. Lavorano 6 giorni su 7. I loro prodotti vengono venduti alle fiere, i proventi vengono poi ridistribuiti alle lavoratrici e ai membri dell’associazione.
“L’interesse nelle nuove generazioni per il tessile è pochissimo perché è un’attività molto faticosa”, dice preoccupata Kristina. Lunghe ore di lavoro e giorni prima di ottenere il capo terminato, rappresentano un’altra filosofia di vita che sotto molti aspetti è agli antipodi della globalizzazione contemporanea.
Solo nell’entroterra si mantiene la tradizione di costruire i telai, è li che ci si reca per acquistarli. Le nuove lavoratrici non hanno la capacità economica di comprarne uno nuovo, così Kristina lo acquista per loro e viene ripagata con i lavori che eseguono per lei. Non riceve indietro tutti i soldi, il suo obiettivo primario è quello di vedere la tradizione portata avanti, ma è una sfida molto difficile. Molte ditte italiane sembrano intenzionate a spostare la propria produzione tessile in Albania per gli incentivi statali, per le tasse basse e per la vicinanza geografica che abbatte i costi di trasporto rispetto alle merci importate da altre zone del pianeta. Questa migrazione delle fabbriche è già in corso, insieme a molti lavoratori italiani che decidono di trasferirsi. Probabilmente porterà ad un’ulteriore riduzione, se non alla scomprasa, di questi modi di produzione tradizionali che rappresentano un legame con il territorio e con la sua identità. Le foto in bianco e nero della nonna sulla parete di casa di Kristina sono gocce dal passato che le ricordano quel legame non solo familiare, ma anche umano … e torna alla mente una frase tanto cara a Vittorio Arrigoni che trasversalmente attraversa il Mediterraneo: “Restiamo umani”.