La vita attraverso la guerra (laddove la politica si coniuga funestamente con la tecnica): è questa una formula che riassume al meglio il complesso delle peripezie vissute dal soggetto novecentesco, soprattutto in apertura del «secolo breve», così come lo presenta l’opera di un osservatore acuto di tempi «terribili», che sono in parte ancora «nostri», come Ernst Jünger. Il recente studio di Manuel Rossini, I non luoghi dell’inumano. Maschera e catastrofe: sulle tracce di Ernst Jünger (Ombre Corte), prefato da Luigi Iannone, ha l’indubbio merito, tra l’altro, di indicare con precisione quelle figure «vitali», non vincolate a pregiudiziali di carattere umanistico, che scaturiscono dal confronto/tensione con l’«elementare»: tali «figure» sono – seguendo la ricerca di Jünger – quelle del «Lavoratore», dell’«Imboscato» (o del «ribelle») e infine dell’«Anarca».

Apparente libertà

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Figure sicuramente antropologiche che restituiscono, anche e soprattutto sotto veste mitica, un possesso di risorse, di «potenza», in grado di supportare l’ingresso e la collocazione inevitabile in un mondo sempre più «tecnicizzato», nel quale sembra valere unicamente la logica della riproposizione del sempre-uguale, di ciò che ha anche ridotto in macerie il tempo storico, demolendone le pretese di originalità e i potenziali di reale trasformazione degli ordini/ordinamenti vigenti, dati.

In tale ottica, sono da menzionare le proiezioni, delineate da Rossini nel «poscritto» dedicato a «democrazia, nuovi media ed estetica», della questione antropologica (che è anche sempre «cosmologica»), rintracciabile in Jünger, sullo scenario di vita rappresentato oggi da quell’intreccio di soggetto e tecnologia che si concretizza in particolare nella Rete. Quest’ultima viene criticamente raffigurata come quel «luogo» di una apparente «libertà» attribuita ad una tipologia dell’umano, ad una sua raffigurazione contraddistinta da monotonia e uniformità, rivestita quindi da un utilizzo della «ragione» di segno unicamente strumentale, che specifica una modalità originale di attacco dell’assetto attuale del mondo alla dimensione dell’umano.

Ma al di là di tale individuazione dello scenario odierno di passaggio (mutazione?) dell’umano, che necessiterebbe di un surplus di analisi ben coltivata delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo, certamente si può dire, ritornando al centro del testo di Rossini, che c’è qualcosa che assilla Jünger: la rilevazione, che si vuole sempre più precisa e dettagliata, della regione misteriosa dell’«elementare», dei suoi tratti e dei suoi rilievi. Si parte appunto dalla guerra, intesa come «metafora della vita», per arrivare, con sensibilità nichilista connotata però misticamente, ad afferrare il protagonismo indubbio dei processi di imponente tecnicizzazione della realtà, riassumibili nella figura titanica del Lavoratore, che non vale semplicemente come espressione di una grandezza «economica» o «politica», ma si presenta proprio come una «figura mitica» all’altezza di un tempo che fa coincidere tecnica con spirito, che inaugura forse una «nuova era spirituale».

Un cuore avventuroso

È su questo motivo della ricerca dell’autore, tra l’altro, di un romanzo singolare e importante come Eumeswil (1977) che insiste opportunamente Rossini, indicando una continuità di fondo della ricerca di Jünger, anche laddove sembra condensarsi nella delineazione di figure in prima approssimazione assai diverse tra loro. Si ha infatti il Lavoratore, segno di un processo estremo di esaltazione delle potenze tecnologiche, nella presa d’atto però di un inevitabile ridimensionamento/spossessamento dell’«umano» tradizionalmente inteso come qualificazione «prima» del vivente complessivo. Accanto ad esso si presentano l’Anarca e l’Imboscato, figure che è possibile rinviare ad un passaggio specifico dell’indagine jüngeriana, che va da una sorta di «mistica del nichilismo» ad una singolare «mistica dell’immanenza», come ha evidenziato tempo fa Ferruccio Masini, interprete sottile delle traversie di un «cuore avventuroso».

Ed è proprio su questo passaggio che Rossini articola una riflessione approfondita sulle figure delineate a partire dal secondo dopoguerra, sottolineando in primo luogo come lo stazionamento «metapolitico» proprio dell’Anarca (il «suo» piano di collocazione nel «mondo» post-bellico e di fatto anche «post-storico»), il suo particolare far fronte alla «disparizione» del decisionismo a tinte «belliche», non rimuova affatto una esigenza di liberazione, cioè di costruzione di relazioni e di conseguente messa in ordine: esigenza/urgenza – quest’ultima – che appare animare il perdersi/ritrovarsi dell’Imboscato lungo vie, comunque conosciute, che sono proprio quelle del bosco più fitto.

Fa quindi capolino e fa ancora problema, secondo Rossini, il motivo della decisione, anche in ciò che appare essere la massima espressione del valore paradossale dell’inesperienza, del rifiuto dell’esperienza come fattore di messa in pregiudizio e poi in discussione radicale della possibilità di perseguire, come scrive Rossini, «l’integrità e la libertà interiore».

Passaggi nichilisti

Ciò che accomuna le due figure-chiave «dell’imboscato e dell’anarca» è quindi una sorta di paradossale riattivazione, sulle macerie dello «spirito» del tempo, di un nichilismo inteso come necessario al transito, appunto il «passaggio al bosco». Riaffiora quindi la dominante «avventurosa» dell’opera complessiva di Jünger, anche tradotta in quella strategia di «avvicinamento» che infine prende corpo in un divagare all’interno di un paesaggio epocale caratterizzato dalle macerie del tempo storico.

Da ciò deriva una sorta di scrittura mitografica, sorretta da una fantasia – appunto mitologizzante – che si vuole capace di un confronto serio con un «mondo in ombra», con il presunto esaurimento delle variabili storiche di cambiamento, e che affida le possibilità di una rinnovata spiritualizzazione della realtà ad un cammino lungo il quale si diano momenti differenti, rispetto a quelli «presenti», di relazione con l’«elementare arcaico»; momenti «magici» che valgono anche come «rifugi provvisori», che possono pure coincidere con un differente utilizzo della tecnica, e che sono comunque di realizzazione da parte di un «soggetto» (con le sue «figure») che appare inevitabilmente consegnato, sia pure in forme non scontate, alla tradizione superomista e tipicamente novecentesca del rapporto tra «l’uomo e la macchina».