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I centenari, e le ricorrenze storiche in generale, sono da sempre un’occasione per utilizzare pubblicamente la memoria e operare una sua rivisitazione.
Il 5 maggio 1915, l’anniversario della spedizione garibaldina dallo scoglio di Quarto, fu sfruttato da D’Annunzio per spronare il governo all’intervento in guerra. Durante gli anni del regime, il primo conflitto mondiale ha rappresentato un episodio fondamentale della narrazione sull’«Italia in cammino» e le giornate del 24 maggio e del 4 novembre sono state declinate all’interno del calendario liturgico nazionale.

Non stupisce dunque che anche questo centenario del 2014-2015 abbia favorito iniziative di riflessione sulla nostra storia nazionale; e che al tempo stesso sia stato il palcoscenico per una celebrazione patriottica, acritica e lontana dalle acquisizioni della storiografia. Sui media e nelle manifestazioni pubbliche sono tornate in circolazione le tesi della «quarta guerra di indipendenza» e dell’«affratellamento» nelle trincee, interpretato in chiave «europeista» .

Dal bisogno di prendere le distanze da tutto ciò prende le mosse il libro di Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella La Grande Menzogna (Dissensi, 2015). Il volume nasce con l’intento di «raccontare in modo rigoroso, ma con un approccio divulgativo» l’orrore della carneficina di massa e della falsità con la quale «ancora oggi molti vorrebbero continuare a ricordarla».

Con il supporto di un ricco apparato d’immagini (fotografie di soldati mutilati e dei campi di prigionia, volantini e santini inneggianti alla violenza), sono ripercorsi i passaggi attraverso i quali si è articolata la produzione seriale di morte e i meccanismi di giustificazione che hanno preceduto, accompagnato e seguito la guerra guerreggiata. Ecco allora che a fianco dell’intellettuale propagandista, inquadrato nelle fila del «Servizio P» dell’esercito, troviamo il prete-psicologo (Agostino Gemelli), impegnato a elaborare una prassi dell’obbedienza che unisca il sacro al medicale.

Del resto, Chiesa e potere politico condividono la convinzione che il corpo dei soldati debba essere oggetto di un controllo costante, anche attraverso la regolamentazione della sessualità nelle case di prostituzione. Nella mentalità dei vertici, plasmata dal disprezzo verso le masse, lo strumento privilegiato rimane però la violenza: la violenza al fronte, per reprimere le spinte disfattiste, quella nelle fabbriche con l’imposizione alla forza lavoro di un controllo di tipo militare, e poi ancora verso i prigionieri di guerra italiani, trattati alla stregua di traditori. Ora, a partire dagli anni Settanta la storiografia si è interrogata sulle forme di resistenza individuale e collettiva rileggendo il conflitto come una grande cesura culturale e mentale. Ad oggi sembra però ancora deficiente, almeno in Italia, la riflessione sulle ragioni dell’ubbidienza di massa ad una guerra apparentemente assurda.

Come a suo tempo ha sottolineato George Mosse, la banalizzazione della violenza politica e l’educazione all’odio verso il nemico, spesso attingendo a formulazioni discorsive di tipo razziale e sessista, sono state due porte di accesso alla modernità autoritaria. Da questo punto di vista, la prima guerra mondiale ha costituito una palestra ideologica per la costruzione del consenso in una società di massa.

Al di là della questione del nazionalismo primonovecentesco e del suo rapporto complicato con la tradizione patriottica, si fa ancora fatica ad uscire da una visione politica della Grande Guerra per affrontare la dimensione storico-culturale che collega il massacro del 14-18 all’affermazioni dei totalitarismi. Si tratta di un punto spinoso e che non si presta davvero alla retorica da centenario. Ben vengano libri come questo che provano a lanciare un sasso in uno stagno più largo di quello degli storici.