Leggiamo su il manifesto di ieri l’articolo di Marta Fana sull’errore del Ministero del Lavoro nel totalizzare il numero di avviamenti al lavoro nel corso dei primi sette mesi del 2015 (circa un milione di eventi in più). Il dato più rilevante è costituito dalla variazione del “saldo” tra avviamenti e cessazioni. Secondo la nota diffusa dal Ministero del lavoro il 25 agosto, tale saldo è stato positivo nei primi sette mesi del 2015 per circa 1.136.000 eventi,
mentre negli stessi sette mesi del 2014 il saldo positivo fu pari a 986.000. L’effetto differenziale tra il primo semestre 2015 e il primo semestre 2014 sarebbe stato solo di 150.000 eventi, su un complesso di 5.150.000 avviamenti nel 2015. Non irrilevante, certo, ma tale da non giustificare affatto il trionfalismo del governo sugli effetti delle sue riforme. E’ comunque preoccupante il riduzionismo che innerva questi confronti, senza tener conto del mutare delle condizioni economiche al contorno, come in una notte in cui tutte le vacche sono bigie. In effetti l’economia italiana nella prima metà del 2015 ha beneficiato di condizioni “esterne” straordinariamente favorevoli: il rialzo del dollaro (da 1,30 a 1,10 dollari per un euro), la riduzione del prezzo del petrolio (che si è pressoché dimezzato), la fase positiva della domanda estera (il saldo del commercio estero nel primo semestre del 2015 è stato pari a + 18,5 mld). In ragione di queste condizioni favorevoli l’incremento dell’occupazione avrebbe dovuto essere assai più robusto di quanto mostrino gli stessi dati INPS; ed i dati ISTAT, che al contrario dei precedenti si riferiscono a “teste” e non a eventi, segnalano addirittura una diminuzione degli occupati tra gennaio e giugno 2015 (da 22.340.000 a 22.297.000). Poche parole infine sull’aumento degli avviamenti a “tempo indeterminato”.

Il confronto tra “prima” e “dopo” il Jobs Act è improprio, per diversi motivi. In primo luogo perché sono cambiate le condizioni al contorno, e quindi ogni comparazione andrebbe fatta dopo aver “depurato” i dati degli effetti di tali cambiamenti. In secondo luogo perché sono cambiate radicalmente le condizioni qualitative dell’occupazione, come sa benissimo chiunque stia cercando un nuovo posto di lavoro. Ma l’elemento più eclatante della vicenda sta proprio nell’errore, gigantesco nelle sue proporzioni. Non è un caso che l’ISTAT sia un’agenzia indipendente dal governo (riforma Rey-Zuliani), proprio perché le statistiche riflettono la realtà, ma inevitabilmente la deformano, come fa ogni specchio; comunque è sulla loro base che si costruisce l’ermeneutica di una società. Bene è quindi che le procedure di costruzione del dato siano pubbliche, trasparenti, aggredibili almeno dagli addetti ai lavori senza problemi. In tutti i paesi a democrazia liberale la statistica ufficiale è indipendente dal governo. L’Amministrazione Pubblica fornisce i dati di base, ma è l’Agenzia Statistica Nazionale che li raccoglie e li elabora. Negli Stati Uniti, addirittura, il potere statistico è diviso tra più Agenzie. Proprio per la delicatezza del tema “mercato del lavoro”, e per la sua centralità nel dibattito politico-economico, auspichiamo che la Commissione per la Garanzia della Qualità dell’Informazione Statistica affronti al più presto questo tema.

* ordinari di Statistica economica nell’Università di Bologna.