Il primo impatto, per me, dopo la strage di Sousse, è stato un ritorno con la memoria a quello che chiamiamo in Algeria il «Decennio nero» degli anni ’90. Mi tornarono in mente le stragi sulle spiagge, nelle città, sulle strade… Le pressioni, il terrore.

Nel 1993, ci furono i primi attacchi dei Gruppi islamici armati (Gia) sulle spiagge. Nel 1994, un comunicato dei «Gia», che vietava di andare in spiaggia soprattutto in contesti misti e con costumi «indecenti», era uscito verso fine maggio, poco prima dell’inizio della stagione balneare.

Giugno arrivò e nessuno osò sfidare quel divieto. Qualcuno andava alle spiagge dei Vip, chiuse e protette. Ma in quelle popolari, silenzio assoluto. Fino a quando, verso metà giugno, arrivò una ondata di caldo come quella di questi giorni.

Passammo 2 o 3 giorni di canicola a sudare di giorno per le strade delle città trasformate in fornace dal sole cocente e le notti a sudare rinchiusi dentro le case a causa del coprifuoco. Quando arrivò il fine settimana, senza nessuna intesa preliminare né parola d’ordine, insieme, centinaia di migliaia di persone: uomini, donne e bambini si riversarono sulle spiagge sin dal primo mattino. Come per dire: «Ammazzateci tutti quanti se volete ma noi ci rinfreschiamo lo stesso».

Dopo quel giorno, ci furono alcuni altri attentati sulle spiagge, ma non ebbero più l’effetto voluto. Il Gia capì presto che quella battaglia, almeno nelle zone che non erano sotto il suo diretto controllo, era persa e che era inutile insistere.

Allora i Gia erano forti in Algeria. A un certo punto si erano anche illusi (o l’esercito glielo lasciò credere) che fossero in grado di prendere il potere. Ma erano forti solo in Algeria. La loro agenda immediata era nazionale. Oggi la situazione è del tutto diversa.

Il marchio di fabbrica Isis, Is, o come vogliamo chiamarlo, è in vendita ovunque. La sua base strategica è non si sa dove, la sua base logistica è in Siria/Iraq. Ma ha una vasta rete di rivenditori in franchising che sparge in giro per il mondo la sua merce avvelenata. Quello che colpisce la Tunisia oggi non è una organizzazione, è una idea. Una idea sicuramente malata ma geniale.

Tutto è cambiato, o no?

La situazione non è la stessa. Tutto è cambiato. Ma pensandoci con calma, mi rendo conto che, alla fine, gli obiettivi degli attentati sono esattamente gli stessi.

La Tunisia è la nazione che è uscita con il miglior risultato dalla «Primavera araba». Dopo essere stato uno dei più chiusi e repressivi, è oggi il paese dell’area dove c’è più libertà di espressione e di iniziativa politica, culturale e sociale.

Qualcuno dice che è perché è il paese arabo che ha la classe media più colta e che a sviluppato la società civile più avanzata. Qualcuno fa risalire il segreto della neodemocrazia tunisina alle antiche usanze dello stato tunisino, dove c’era da molto tempo una tradizione di dialogo e di confronto tra diversi.

Qualcuno vede le origini di questa eccezione nel fatto che non ci siano grandi interessi stranieri per la destabilizzazione della Tunisia, perché è un paese piccolo, povero in risorse naturali e poco importante strategicamente.

La verità sta probabilmente in tutte queste spiegazioni e in altre ancora. Fatto sta che finora la Tunisia è riuscita a trarre utili lezioni dalle esperienze dei paesi dell’area e a evitare di cadere negli stessi errori. Non è rimasta immobile come l’Algeria e il Marocco, non è caduta nella trappola della guerra civile come la Siria e la Libia, e non è ritornata a una dittatura ancora più dura di prima come è il caso dell’Egitto.

Il bersaglio di tutte le invidie

Ma è proprio questa eccezione che rende il piccolo paese mediterraneo bersaglio di tutte le invidie e di tutti i rancori. La guardano male i regimi ancora in piedi perché dimostra che la società araba-musulmana è in grado di vivere in democrazia senza un “grande fratello” che bada a tutto. E la guardano male le opposizioni integraliste, più o meno, per le stesse ragioni.

Gli unici a guardarla con approvazione e ammirazione sono i democratici-laici nei paesi arabi-musulmani. Ma purtroppo, questi ultimi possono portare ben poco aiuto alla Tunisia, perché contano meno di niente attualmente nella maggior parte dei paesi dell’area. Lo scacchiere è occupato con prepotenza dal terrore dei salafiti e da quello dei regimi polizieschi.

Mi dispiace di deludere l’egocentrismo occidentale ma l’attentato sulla spiaggia di Sousse ha gli stessi obiettivi di quelli sulle spiagge algerine di 20 anni fa: bloccare e terrorizzare un paese. Non fa parte di una «guerra contro l’Occidente», come gridano le prime pagine di molti giornali. È vero che le vittime sono occidentali. Ma l’obiettivo strategico è la Tunisia. L’obiettivo è quello di portare il paese allo stremo tagliando la sua principale attività economica.

Lo stato nordafricano ha una economia molto debole. Una economia che poggia principalmente su due gambe: turismo e agricoltura. C’è da dire però che questo «bipedismo» è un po’ zoppicante perché l’agricoltura è stata trascurata durante il regime precedente e lasciata a se stessa di fronte alla desertificazione che avanza, alla mancanza d’acqua e di fronte alle crisi periodiche dovute alla concorrenza spietata con paesi molto meglio organizzati e attrezzati.

Invece sul turismo si è investito tanto sia a livello privato che statale, facendo di questa attività, nello stesso tempo, la forza e la debolezza del paese. Perché, come si sa, il Turismo è una attività che porta entrate facili e veloci in moneta forte, ma nello stesso tempo è una attività molto fragile che ha bisogno di pubblicità e di stabilità e sicurezza prima di tutto. Questa è l’eredità pesante che ha ricevuto il paese dal regime di Ben Alì. Una eredità che concentra tutta la sua ricchezza lungo la costa e taglia fuori tutto il paese profondo. Una eredità sbagliata che la giovane democrazia tunisina non ha saputo o non ha avuto modo e tempo di correggere. E gli ultimi attentati vengono per sfruttare questa debolezza.

Due attentati un obiettivo

L’attentato di Sousse e quello che ha colpito il museo del Bardo poche settimane fa hanno entrambi lo stesso obiettivo: portare il paese al crollo economico.

La crisi economica va sempre a favore degli estremismi. Lo scontro sociale che nascerebbe da un crollo dell’economia turistica in Tunisia, con i gruppi armati pronti a intervenire dalla vicina Libia e con il potente esercito algerino che non accetterebbe mai il rischio di una presa di potere dei salafiti a due passi dai suoi confini, porterebbe il paese di nuovo di fronte alla scelta tra la peste e il colera: oscurantismo religioso o dittatura militare.

Il ritorno a tale situazione annullerebbe del tutto l’eccezione tunisina e riporterebbe la nazione alla casella di partenza. La farebbe rientrare nella “norma” regionale. Un ritorno alla normalità che piacerebbe tanto sia ai paesi vicini che ai gruppi salafiti e forse, in fin dei conti, a tutti quanti… Tranne che ai tunisini stessi.

* giornalista e scrittore algerino