È un festival che concede poco allo spettacolo quello diretto da Pippo Delbono ad Asti, dopo l’assaggio dell’estate scorsa che già appariva come una dichiarazione d’intenti. È piuttosto un festival di racconti, intendendo con racconto un tentativo di entrare nel mondo. Racconti che possono anche essere fatti di immagini, come quelle portate dalla grande fotografa palermitana Letizia Battaglia – non le immagini di mafia che più facilmente si associano al suo nome ma una serie di pensosi primi piani di Pasolini ripreso a un convegno dei primi anni 70 e un composito lavoro più recente dedicato agli «invincibili» (con significativo lapsus diventati «irriducibili» negli stampati del festival), quasi un elettivo «album di famiglia» dove si ritrovano insieme Che Guevara, Rosa Parks e a sorpresa la Venere di Tiziano.

E vale anche per le fotografie che raccontano i due anni trascorsi da Monika Bulaj fra i popoli dell’Afghanistan. O per il racconto teatralizzato del viaggio in Africa della giornalista del Corriere Livia Grossi che in mezzo a video e musiche compie a ritroso i percorsi dell’emigrazione. Tema quest’ultimo che attraversa un po’ tutto il festival, dall’evento inaugurale che rilanciava lo slogan benaugurante «l’accoglienza ci fa bene» all’installazione realizzata da François Koltès in Sicilia, dove l’artista vive da qualche tempo. Ecco una processione di sagome bianche, figure umane senza volto ma che a ben guardare portano con sé i segni di una propria diversità, in immobile marcia verso un abisso, mentre le luci che sembrano provenire da quelle profondità marine ne proiettano le ombre su una parete. Come ci appaiono gli uomini dei barconi.

Passione Amore Fede, dice il titolo scelto per questa edizione di Astiteatro. Ci si potrebbe aggiungere la parola «memoria», che forse ha molto a che fare con le altre tre. E naturalmente i modi di coniugarla sono diversi. Olga De Soto, spagnola trasferitasi in Belgio, va sulle tracce di uno storico spettacolo di Kurt Jooss, che fu maestro anche di Pina Bausch. C’è infatti anche il nome della coreografa di Wuppertal fra i tanti che scorrono sul fondo. Sono, come scopriremo, i tanti interpreti delle tante edizioni di Der Grune Tish ovvero Il tavolo verde, il capolavoro creato a Parigi nel 1932 da Jooss, poi costretto alla fuga dalla Germania per non sottostare alla richiesta nazista di licenziare tutti i danzatori ebrei della sua compagnia.

De Soto è andata a cercare le testimonianze di spettatori che in anni lontani videro lo spettacolo o di danzatori che vi presero parte, e le ha cucite in un montaggio che ricostruisce poco per volta il senso e l’emozione di quella creazione. Che alla fine prende nel ritrovato frammento di una registrazione inglese degli anni 60. Dove con emozione riconosciamo fra i danzatori proprio la giovane Bausch.

C’è un lungo tavolo apparecchiato anche in Ma mère et les autres, mostra-spettacolo che Pippo Delbono ha realizzato in Francia e giunge da noi per la prima volta. A piccoli gruppi gli spettatori vengono fatti sedere intorno al tavolo, sotto festoni di lampadine da sagra paesana.
Ed è naturalmente la voce dell’artefice che introduce al lavoro. Ma poi ci si sposta alle spalle di una poltrona vuota, davanti a una parete su cui si proiettano le immagini della mamma Margherita morente, che consegna al figlio parole di speranza.

E sono invece una decina di monitor a moltiplicare in loop le metamorfiche immagini di Bobò, il vecchio bambino sottratto al manicomio quasi vent’anni fa e diventato un attore dotato di una misteriosa sapienza. Fra realtà e finzione, uno straordinario ritratto d’artista