La deputata laburista, Jo Cox, uccisa in modo efferato nel suo quartiere da un cittadino inglese, trasforma in tragedia la drammatica campagna referendaria sulla Brexit. La sua morte ha fermato la propaganda elettorale spinta a pesanti livelli di violenza verbale e a un’estrema manipolazione dell’informazione pur di incendiare la mobilitazione al voto.

Se la campagna elettorale si ferma di fronte al sangue di una parlamentare impegnata contro la Brexit, non si placa invece la fibrillazione dei mercati.

Non è la prima volta che in Gran Bretagna si giunge ad una consultazione popolare riguardo ai rapporti fra Regno Unito ed Europa. Successe già il 5 giugno del 1975, quando – con un’affluenza per l’appunto d’altri tempi, il 64,2% degli aventi diritto – gli inglesi votarono per la permanenza nella Comunità europea con una maggioranza nettissima del 67,2%.

Contavano su un’alleanza fra la parte maggioritaria del Labour Party di Harold Wilson (mentre la sinistra laburista era contro) e i conservatori di Margareth Thatcher. Questa volta tanto il quadro politico quanto il contesto economico sono completamente diversi e assai più drammatici. Qualunque sarà l’esito della consultazione del prossimo giovedì – le previsioni vedono ora in leggera maggioranza il Brexit – «il danno è già stato fatto», come ha dichiarato, tra gli altri, Joseph Stiglitz in riva al lago d’Iseo per la tradizionale Summer School dell’istituto fondato da Franco Modigliani.

Il premio Nobel fa soprattutto riferimento all’economia. Non si può certamente dargli torto. Gli ultimi giorni sono un bollettino di guerra per i mercati finanziari. Le borse europee, come Parigi e Milano, sono in perdita. La borsa di Londra negli ultimi cinque giorni ha visto volatilizzarsi 100 miliardi di sterline. Ma anche quelle asiatiche e americane non se la ridono. Il pound si svaluta, toccando il minimo degli ultimi due anni, senza però favorire lo sviluppo delle esportazioni inglesi, contrariamente a quanto vorrebbe una troppo rozza vulgata. Gli spread aumentano e persino il titolo decennale tedesco finisce sotto zero. Ovvero per la prima volta nella storia si paga per prestare soldi allo stato tedesco, anche sulla distanza dei dieci anni. Per la verità quest’ultimo elemento non è solo dovuto al pericolo di Brexit, ma da quest’ultimo accentuato. Infatti il 75% dei bond della Germania con scadenza compresa fra 2 e 30 anni era già a tasso negativo. Si tratta di uno degli effetti collaterali dell’aumento della portata del quantitative easing deciso recentemente da Mario Draghi. Allo stesso tempo una delle conseguenze di quella stagnazione che alcuni economisti, come Summers e lo stesso Krugman, hanno definito “secolare”.

Al peggio non vi è mai fine e dunque la vittoria di Brexit potrebbe aggravare il triste quadro economico dell’intera Europa. Importa relativamente che le sorti per la sterlina sarebbero più incerte. Rischierebbe non solo la svalutazione, ma probabilmente anche l’uscita dallo status di valuta di riserva, che ora condivide con euro, dollaro e yen e che la moneta cinese vorrebbe ardentemente conquistare. Conta assai di più il fatto che Brexit determinerebbe con ogni probabilità nuove indulgenze da parte della Ue nei confronti della Gran Bretagna, per evitare che la fuoriuscita diventi rottura su tutti i fronti. E’ lo stesso Stiglitz, con un ragionamento un po’ curioso, ad auspicare l’abbandono di uno «spirito di vendetta» da parte della Ue nei confronti dell’Inghilterra, che francamente mi riesce difficile vedere.

Anzi, proprio per evitare un pronunciamento Leave nell’imminente referendum, il primo ministro Cameron nelle settimane precedenti aveva già ottenuto abbondanti concessioni, che proprio in queste ore vengono confermate dalla Corte del Lussemburgo. Quest’ultima, infatti, ha pienamente aderito alla tesi del governo inglese che non vuole riconoscere gli assegni sociali ai cittadini della Ue disoccupati e residenti nel Regno Unito, ma da meno di cinque anni. In altre parole gli immigrati sul suolo britannico dovrebbero prima dimostrare di avere contribuito alla ricchezza di quel paese. Se questa decisione porta analisti e allibratori a diminuire drasticamente le possibilità di vittoria di Brexit, rendendo quasi pari la contesa, risulta chiaro che ben più del danno economico conta quello politico.

Si profila quindi per il dopo 23 giugno una lose-lose situation – per fare il verso agli inglesi – ovvero un quadro nel quale l’esito non è comunque positivo per l’Europa e i suoi popoli. Anche se la gravità non sarebbe la stessa. Se vincesse il Brexit, infatti, sarebbe ancora più difficile tenere in piedi non solo l’idea d’Europa, ma neppure la sua attuale crisalide. Ma sarebbe una botta da destra. Si comprende perfettamente, da un lato, la posizione filo Remain di Corbyn («remain and reform») e quella filoBrexit di Farage, dall’altro. Spingerebbe ancora più avanti tutti gli sciovinismi, le pulsioni identitarie e xenofobe, quando non apertamente razziste delle quali abbiamo già segnali concretissimi in particolare nell’Europa nordorientale.

Ma anche nel caso della vittoria di Remain verrebbe assestato un colpo non da poco al sistema di welfare inglese, in un quadro europeo che ne vede già la continua restrizione. Non è un caso che anche Brexit e Remain giochino la loro partita sulla pelle dei migranti, vero nodo umanitario, civile e politico che scuote dalle fondamenta la traballante costruzione europea. Un’altra dimostrazione palese – se ce ne fosse ancora bisogno – che un’Europa costruita neppure sull’economia, ma sulla moneta non può reggere.