Tra i temi economici che maggiormente fanno discutere in questo momento, il rallentamento dell’economia Usa è quello che, per ovvie ragioni, merita un supplemento di attenzione. Che succede da quelle parti? Molto sinteticamente: dopo un quinquennio segnato dal recupero delle posizioni perse per effetto della crisi dei subprime, la seconda economia del mondo torna a segnalare qualche acciacco. Due gli indicatori sotto i riflettori: la crescita del Pil nel primo trimestre al di sotto delle aspettative e una deludente performance del mercato del lavoro nei primi cinque mesi dell’anno. A far data da gennaio, sono stati creati meno posti di lavoro del previsto (38 mila contro una stima di 160 mila), ma il tasso di disoccupazione, a sorpresa, è sceso al 4,7%, il più basso dal novembre 2007. Un dato, quest’ultimo, che fa il paio però, in termini congiunturali, con la discesa, parallela, del tasso di partecipazione alla forza lavoro, ovvero con la rinuncia di alcuni segmenti della popolazione a cercare un lavoro.

Nondimeno, se assumiamo la crisi del 2007-2008 come spartiacque, e facciamo un confronto con quello che è accaduto in Europa nello stesso periodo, questi numeri rivelano un quadro molto distante da alcune rappresentazioni del momento. Nel 2009 il tasso di disoccupazione in Europa era al 9,8%, mentre in America si attestava al 9,5%. In entrambi i casi, allora, si parlava di percentuali da record. In quell’anno, l’Italia se la passava relativamente “meglio”, con una percentuale al di sotto della media europea, il 7,4%. Poi la crisi ha fatto il suo corso, ed anche le diverse politiche di risposta alla crisi. E così, mentre negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 5%, nell’eurozona si attesta al 10,3% (dato di aprile) e in Italia all’11,7% (quella giovanile vicina al 37%). Come si spiegano questi dati? Semplice: in Europa si è scelto di fronteggiare la crisi con politiche di austerità, in America con stimoli pubblici all’economia, la scelta più ovvia quando il ciclo economico è negativo. Si ricorderà che proprio nel 2009 fu varato dall’amministrazione Obama il pacchetto ARRA (Recovery and Reinvestment Act), una manovra da quasi mille miliardi di dollari per creare immediatamente nuova occupazione, potenziare la rete di protezione sociale per i soggetti più colpiti dalla crisi, rilanciare l’economia attraverso investimenti diretti in infrastrutture, istruzione, sanità, energie rinnovabili. Tale operazione, coniugata con quella di Quantitative Easing (QE), ha consentito agli Usa di riportare la disoccupazione ai livelli pre-crisi. Ma torniamo all’oggi.

Perché l’economia Usa frena? C’entrano sicuramente il rallentamento dell’economia cinese e il crollo del prezzo del petrolio, con tutte le conseguenze che lo stesso sta avendo sul settore dello shale gas & oil. Ma c’entrano soprattutto gli attuali equilibri (o squilibri) nel mercato mondiale. Se da un lato, infatti, gli Usa continuano a far registrare un incremento apprezzabile dei consumi sul piano interno (ad aprile si è avuta la crescita più sostanziosa da sei anni a questa parte), lo stesso non si può dire per la domanda estera, che continua a rivelarsi debole, inadeguata.

Nessuna novità, per carità: la bilancia commerciale americana è in rosso dal lontano 1977! E’ che oggi, nell’analisi dei rapporti di forza nel mercato globale, non si può più eludere il tema del mancato contributo alla domanda aggregata mondiale fornito dai paesi che guidano la classifica dei surplus di parte corrente, a cominciare dalla Germania, che lo scorso anno ha toccato il picco dell’8,5% del Prodotto interno lordo, in barba alle soglie (6% del Pil) fissate dalle regole europee.

Un grande tema, che spiega, ad esempio, l’interesse degli Usa per il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Ttip) e, di converso, la crescente freddezza di alcuni paesi europei per esso. Forse che i governi di Berlino e Parigi si sono improvvisamente resi conto dei rischi per l’ambiente, per i diritti dei consumatori e dei lavoratori, derivanti dalla firma del Ttip? Certo, le campagne di informazione e le grandi manifestazioni di piazza degli ultimi mesi hanno influito molto sull’orientamento dell’opinione pubblica di questi paesi, ma è negli sviluppi della guerra commerciale che si combatte su scala mondiale che bisognerà trovare la risposta ad un eventuale (ed auspicabile) naufragio del progetto. Insomma, al di là delle dichiarazioni ufficiali, ciò che conta è che un paese come la Germania, solo l’anno scorso, ha fatto registrare un attivo commerciale con gli Usa pari a 74 miliardi di dollari. E questo per gli Usa è diventato un problema, che si somma a tutti gli altri.

Un problema che potrà essere risolto in un solo modo: con i tedeschi, e gli europei, che comprano più prodotti americani. Ma perché questa evenienza si verifichi, sono necessarie due condizioni: che in Europa si allenti la morsa dell’austerità e, per l’appunto, si abbattano le barriere commerciali che attualmente limitano lo scambio di prodotti e servizi tra le due sponde dell’Atlantico. Ora, che la Germania debba frenare la sua corsa mercantilista, nel rispetto, in primo luogo, del patto che ha sottoscritto con gli altri partner europei, è un dato ineludibile. Che un maggiore equilibrio negli scambi commerciali su scala globale si realizzi a scapito della salute dei cittadini, dei diritti dei lavoratori e della democrazia, è, nondimeno, un altro paio di maniche.