Di memorie e malinconie di un tempo ormai lontano, Terence Davies ha sempre ammantato le inquadrature e il flusso della sua macchina presa. Instancabile sacerdote del culto del melodramma, a quattro anni di distanza da The Deep Blue Sea, Davis si immerge nuovamente nella complessità delle leggi del desiderio femminile, infrante da un mondo maschile violento e squallido, con Sunset Song. Un titolo dalle elegiache promesse in uno splendido 65 mm, presentato a Toronto lo scorso settembre e ora approdato al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile.

«Sono cresciuto in un periodo in cui fiorivano i cosiddetti ’film da donne’ e mia sorella mi portava spesso al cinema a vedere L’amore è una cosa meravigliosa o Secondo amore» ha dichiarato il regista inglese di passaggio in città per ricevere il Gran Premio Torino «Queste sono le mie radici cinematografiche e non è possibile dimenticarlo. Poi sono cresciuto, ho iniziato a fare cinema e credo, per ogni mio film, di prendere qua e là, sempre inconsciamente, dai registi che ho amato. Ma non è mai qualcosa di studiato anche perché credo che se si prende coscienza della cosa, l’immagine diventa immediatamente falsa, perde di autenticità».

Tratto dall’omonimo romanzo scozzese di Lewis Grassic Gibbon, visto per la prima volta in uno sceneggiato televisivo della Bbc verso la fine degli anni ’70, il film si snoda nel corso di dieci anni, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, attraverso l’educazione familiare e sentimentale di Chris, l’esile ex supermodel Agyness Deyn. «Me la presentò il produttore, non avevo la minima idea del suo passato da icona pop delle passerelle, ho semplicemente capito al volo che era perfetta per la parte». Cioè la giovane figlia di un agricoltore presbiteriano nelle campagne di Kinraddie, studentessa modello, scissa fra l’attaccamento per la ruvida terra di Scozia e il rifiuto verso un padre titanico e bestiale che conosce soltanto la frusta e la repressione religiosa come forma di comunicazione con i figli. Ben presto il nucleo familiare si sfalda: il fratello maggiore parte per l’Argentina, la madre, esausta dalle continue gravidanze, si uccide insieme all’ultimo arrivato e i fratellini vengono affidati alla zia senza figli.

Chris, protagonista dal nome maschile che per mascherato minimalismo e abnegazione ricorda il Robert Tucker protagonista della The Terence Davies Trilogy del 1983, abbandona in fretta sogni di indipendenza e, con essi, anche il desiderio di lasciare per sempre quei paesaggi aspri e mutevoli, fra la bellezza del grano maturo e il dolore delle tempeste, mentre anche il padre, il consueto, animalesco Peter Mullan, muore per le conseguenze di un ictus.

Liberata dall’autoimposta schiavitù paterna, Chris sostituisce ben presto la figura maschile davanti al focolare con il coetaneo Ewan, mentre una vocina narrante che risuona come l’infanzia negata, ma mai soppressa, racconta la parca ebbrezza del matrimonio, gli anni felici, l’arrivo di un figlio, la contemplazione della vita quotidiana fra le fatiche dei campi e l’amore al calar del sole. Lo scoppio della guerra obbligherà il marito a partire per il fronte, con conseguenze terribili per l’equilibrio della donna e delle sue terre che Davies trasforma in personaggi dall’ampio respiro, che agiscono e regolano la vita dei protagonisti.

«La nostra vita contemporanea non è più regolata dai cicli stagionali ma dagli orologi, credo ci sia una falsa concezione del tempo», spiega il regista. «Se si ripensa al Medioevo, ogni azione era concepita in funzione della luce, senza nessun’altra possibilità di rimandare qualcosa che andava fatto in un preciso momento. Il mio film ha riferimenti costanti a questo, alla terra e alla luce, a come influenzavano la vita della gente. Ho voluto tornare ancora più indietro nel tempo e mostrare questa cosa perduta per sempre».