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Massimo Recalcati, di cui abbiamo letto l’elogio del «maestro» più ne L’ora di lezione, offre in questo libro un’ulteriore testimonianza di come si possa essere «allievi» nel senso più alto raccogliendo l’eredità del proprio intercessore, che per lui è Lacan, trascendendola. Perché i tempi cambiano. Perché essere cloni del proprio maestro è tanto vano quanto, spesso, annichilente.

Dunque nel volume Le mani della madre (Feltrinelli, pp. 192, euro 16) l’autore, pur restando nel solco del maestro, guarda la realtà che lo circonda, dalla postazione privilegiata del suo studio di analista ma anche prestando grande attenzione agli artefatti culturali del nostro tempo, in particolare libri di narrativa e film, ed effigia un’immagine della donna che Lacan non avrebbe potuto (o voluto) ritrarre proprio in quanto il contesto è mutato profondamente.
Un altro profetico intercessore di Recalcati è stato Pasolini. Un elemento, questo, che non va dimenticato per contestualizzare alcuni temi affrontati da Recalcati. Il tempo in cui viviamo è infatti dominato da un’etica sadiana mentre quello di Pasolini vedeva ancora un’etica operante di tipo kantiano, benché lo scrittore e regista avesse antivisto le conseguenze tragiche del consumismo che già cominciava a montare.

È a partire da questo grumo che Recalcati prende il fondo oscuro di Pasolini, la «parte infernale» o «il resto» di ciò che rimane in ciascuno di noi: quel resto irriducibile all’iscrizione nel discorso dell’Altro o del linguaggio che per Pasolini è stata una madre: una madre dimentica della necessità che hanno perfino le madri degli animali di lasciar andare i loro cuccioli come fanno le gatte, che giungono a graffiare i gattini che non vogliono saperne di abbandonare la meraviglia dell’unione fusionale per costringerli a conquistarsi autonomamente il loro posto nel mondo. Lo fa a due terzi del libro citando una sua poesia: «Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore/ ciò che è stato sempre, prima di ogni altro amore./ Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:/è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia./ Sei insostituibile. Per questo è dannata/alla solitudine la vita che mi hai data./ E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame/d’amore, dell’amore di corpi senza anima./ Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu/sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù».

Le mani della madre completa il mosaico della trasmissione composto da Recalcati, dopo Cosa resta del padre? e Il complesso di Telemaco, per illustrare poeticamente il ruolo della madre nel nostro interregno. Se il padre è evaporato e può essere trasmesso solo come eredità palpitante e desiderante attraverso una «legge» accettata in primis in se stessi, una «legge» coniugata al desiderio e non sganciata da esso, e se il figlio non può che sentire la nostalgia del padre e deve mettersi attivamente «in viaggio» per ritrovarlo, la trasmissione della vita è appannaggio esclusivo della madre: attraverso le mani, che trattengono il nuovo nato dalla caduta nell’insignificanza, attraverso lo sguardo, in cui il bambino si specchia per riconoscersi accettato e meritevole di abitare il mondo, attraverso l’apertura del mondo, reso grazie al suo sguardo disponibile, possibile, accogliente, attraverso il seno, che non può essere solo nutrimento ma deve essere anche segno, e attraverso la mancanza, l’allontanamento, poiché «l’ospitalità senza proprietà definisce la madre come la responsabilità senza proprietà definisce il padre».

I tempi cambiano, però. E allo stesso modo cambiano i rischi. Questo libro, che è un inno al potere materno di inscrivere nella vita, segnala come al pericolo che in passato incombeva nel mondo patriarcale che la donna vi aderisse annullandosi come donna per essere solo madre, subentri oggi il pericolo altrettanto infido che l’ingiunzione di una performatività egocentrica e narcisistica diffonda a macchia d’olio un rinnovato complesso di Medea. Un atteggiamento che esclude dall’orizzonte della madre qualunque ostacolo si frapponga alla sua realizzazione non tanto come donna – che è non solo legittimo ma indispensabile al proprio compito di madre – ma come manager autocentrato, come macchina di autoaffermazione attraverso l’ottemperanza cieca all’agenda di un potere indifferente al mondo. L’atteggiamento che Aristotele aveva definito dello schiavo.

Un libro dalla parte delle donne e della loro capacità di tratteggiare, oggi più che mai, un mondo più consapevole e generativo.