Se il segretario Renzi – che conosce l’orientamento del Quirinale, registra le prudenze di Gentiloni – dopo la sentenza della Corte costituzionale ha evitato di ripetere ad alta voce il suo ultimatum per le elezioni al più presto, ci ha pensato il presidente del Pd Orfini. Che ieri – intervistato nel pomeriggio dall’Huffington Post – ha concesso agli altri partiti non più di «dieci giorni» per trovare un accordo su un nuovo sistema elettorale (il Mattarellum è ormai solo una ipotesi). Altrimenti ha detto che il Pd chiederà le elezioni a primavera con le due leggi che il governo Renzi ha lasciato in eredità: l’Italicum amputato alla camera e il Consultellum al senato. Orfini evidentemente confida che il presidente della Repubblica e il capo del governo saranno d’accordo.

L’intervista battagliera – oggi da Renzi si attende un discorso simile nei contenuti ma più attento alle forme – è il risultato del vertice del Pd con il segretario e i capigruppo in parlamento, nel quale è risultato chiaro che in numeri per approvare il Mattarellum non ci sono e quelli per rendere omogenee le due leggi elettorali andrebbero pazientemente cercati sulla base delle modifiche che si proporrà di fare. È il risultato cioè di un’impotenza, legata soprattutto per le prossime due o tre settimane ai tempi della Corte costituzionale. Senza leggere la sentenza – le famose «motivazioni» che il giudice Zanon deve ancora scrivere – il parlamento non potrà muovere un passo. Soprattutto perché dalla Corte ci si aspetta un messaggio rivolto proprio ai legislatori, per orientarli nella scrittura di una nuova legge elettorale che possa finalmente, dopo due bocciature consecutive, passare al vaglio di costituzionalità.
Renzi evidentemente non può non saperlo, perciò questa strategia dell’ultimatum – peraltro è il secondo, uno identico era stato sganciato nell’indifferenza prima di capodanno – serve a tenere sulla corda il parlamento, e non solo. Toccherebbe infatti al presidente della Repubblica sciogliere le camere, e Mattarella ha detto una sola cosa dopo la vittoria del No al referendum: servono leggi elettorali non solo «omogenee» ma anche «pienamente operative».
Neanche quello che ha detto ieri a Madrid il presidente del Consiglio si concilia bene con l’ultimatum di Orfini. Ha confermato infatti che sul sistema di voto bisogna intervenire «con la necessaria sollecitudine». Ma Gentiloni ha parlato di «leggi elettorali», al plurale, da correggere. E da correggere in parlamento «per il buon funzionamento del sistema democratico». Dunque nessuna ipotesi di andare a votare con lo schema binario consegnato dalla sentenza della Consulta. «Autoapplicativa» non significa funzionante. E il governo Gentiloni non può seguire in tutto e per tutto l’esempio del governo Renzi, malgrado Orfini si spinga a immaginare ancora una legge elettorale approvata con la fiducia. «Noi ci occupiamo dei problemi del paese – ha detto infatti Gentiloni – e guardiamo con rispetto alle scelte che farà il parlamento».

Il pressing di Renzi, in definitiva, è tanto obbligato – la procedura di infrazione europea non ha fatto che anticipare le preoccupazioni per la prossima legge di bilancio – quanto al momento sterile. Tra qualche settimana dovrà spostarsi nel merito delle modifiche da fare, in parlamento, alle leggi elettorali. Una assai prevedibile: il ritorno alle coalizioni anche alla camera (come da primo patto del Nazareno). Perché così è al senato. E perché il trucco dell’unico listone Pd, con dentro gli alleati di sinistra e di centro sotto le stesse insegne, ieri pomeriggio è stato già sconfessato dai possibili protagonisti: Pisapia e Alfano.