La prima concreta reazione egiziana alla sospensione (decisa dal parlamento italiano a fine giugno) della fornitura gratuita dei pezzi di ricambio per gli F16 è arrivata martedì sera. Più che una risposta è un’altra chiusura: la commissione Esteri del parlamento del Cairo, impegnata sul caso Regeni, ha negato di nuovo alla Procura di Roma la consegna di materiali relativi all’inchiesta in corso.

La giustificazione è la stessa addotta in passato: le richieste italiane sono «incostituzionali». Secondo Tarek al Kholi, segretario della commissione, gli investigatori italiani avrebbero chiesto tabulati telefonici, immagini delle telecamere presenti nei luoghi della scomparsa e del ritrovamento di Giulio e l’estradizione di tre persone.

Se i tabulati e le immagini non rappresentano una novità (da mesi il team del pm Pignatone insiste per ottenerli), sorprende l’elemento nuovo delle estradizioni. Una stranezza che i primi a sottolineare sono propri gli inquirenti italiani: fonti della Procura hanno negato di aver mosso simili richieste.

Lunedì, il giorno precedente all’ufficializzazione del diniego egiziano, si era riunita al Cairo la commissione parlamentare trilaterale (Esteri, Difesa e Diritti Umani) proprio per discutere del caso del giovane ricercatore. Secondo quanto riferito da al Kholi, «la riunione odierna ha svelato quelle che sono le vere richieste italiane».

«Le tre commissioni hanno confermato il rifiuto delle autorità egiziane – ha aggiunto – a rispondere alle domande italiane in quanto vietato dalla Costituzione». Torna così a galla di nuovo lo scoglio della privacy, tragica ironia in un paese che esercita un controllo maniacale sui propri cittadini.

All’ordine del giorno della riunione – ha detto il generale Amer, capo della commissione – sono finite (ufficialmente per alleggerire le tensioni con Roma) anche le eventuali misure da assumere dopo lo stop al rifornimento dei pezzi di ricambio dei caccia da parte italiana. Ieri sono state presentate al parlamento egiziano le 10 raccomandazioni uscite da quel meeting: tra queste, riporta Agenzia Nova, ci sono l’invito in Egitto della famiglia Regeni e la formazione di un team che gestisca i rapporti con l’Italia. Quelli messi in dubbio, all’indomani del voto del parlamento italiano, dal Ministero degli Esteri egiziano che aveva minacciato l’alleato usando come strumento di ricatto i rapporti strategici su immigrazione, crisi libica e lotta allo Stato Islamico.

A quasi sei mesi dalla scomparsa di Giulio nella sera del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, il 25 gennaio, la verità è lontanissima. Alle tensioni di facciata fanno da contraltare il mantenimento dei saldi rapporti economici tra Italia ed Egitto e l’assenza di passi in avanti nelle indagini, in perenne stallo per il rifiuto egiziano a collaborare.

Il presidente al-Sisi è tranquillo: membro osannato dalla comunità internazionale nell’ampio fronte della lotta al terrorismo (ieri i suoi rappresentanti erano a New York a discutere con quelli di altri 30 paesi della questione), prosegue spedito sulla via della repressione interna.

Non c’è giustizia per Giulio, come non ce n’è per migliaia di egiziani dimenticati nelle carceri di Stato. Tra loro Ahmed Abdallah e Malek Adly. Il primo, presidente della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà e consulente della famiglia Regeni, è in carcere dal 25 aprile, uno degli innumerevoli arresti “preventivi” in vista delle proteste di piazza contro il governo. Ieri l’ordine di detenzione è stato rinnovato per l’ennesima volta di ben 45 giorni.

Simile il destino dell’avvocato per i diritti umani, Malek Adly: arrestato il 6 maggio e da allora costretto in isolamento (ulteriore forma di tortura psicologica), si è visto consegnare un altro rinnovo lunedì. Per lui altre due settimane di prigionia, costantemente riproposte da quasi quattro mesi. Il suo avvocato e la moglie non smettono di fare appelli: la salute di Malek sta deteriorando drasticamente.