Nella settimana di Spectre, esce un film polacco, Corpi, Orso d’Argento alla Berlinale 2015, diretto dalla regista Malgorzata Szumovska giunta qui al suo sesto film e, a quanto pare, abbonata ai premi nei maggiori festival internazionali.
Il paragone con la superstar delle spie suona improprio, pensando al budget e al numero delle sale che separano alla nascita i due film. Eppure Spectre, e più in generale tutti gli 007, e Corpi possiedono un punto in comune: sono opere che hanno a che fare con la morte. La spia inglese ha licenza d’uccidere, magari meno in questi ultimi anni, e pur addolorandosi dei decessi che si moltiplicano in modo esponenziale intorno a lui, tira avanti perché la morte è uno dei tanti accadimenti giornalieri. Il lutto si elabora inseguendo il nemico, tra una buca e l’altra del manto stradale, possibilmente dando altra morte.

In Corpi, invece, la fine non viene accettata, è qualcosa che non spinge ad andare avanti, a vendicarsi, a ottenere giustizia, a comprendere il senso del mondo. È un accadimento misterioso che mette in discussione qualsiasi certezza. E lo si vede sin dall’inizio della storia, quando uno dei tre protagonisti, il sostituto procuratore Janusz, deve appurare il decesso per suicidio di un uomo. In un ambiente mesto (la Polonia d’oggi, ma potrebbe essere un altro luogo), mentre i poliziotti hanno delimitato il perimetro e spiegano al magistrato l’andamento delle prime indagini, l’impiccato si libera dalla corda e barcollando un po’ se ne va per conto proprio tra lo stupore contenuto dei presenti. Era vivo? È resuscitato? Non lo sappiamo. Szumovska comunque costruisce un quadro che improvvisamente porta lo spettatore a riderci sopra. La morte, anche quella apparente, è un fenomeno talmente incomprensibile (e inverificabile) che non può essere raccontata attraverso un solo genere cinematografico.

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Il noir si fa commedia, la commedia torna a essere nera. Janusz, infatti, oltre a essere un procuratore che deve quotidianamente affrontare orrori su orrori, delitti terrificanti come il massacro di un bambino, è anche un padre e un vedovo. Ha perso la moglie e questo evento ha causato la dissoluzione del rapporto con sua figlia, Olga. Definito cinico, poco propenso al dialogo, spesso e volentieri con un bicchiere di vodka in mano, Janusz è il tipico esemplare che si lascia andare, che trova nel lavoro il luogo ideale dove nascondersi dall’assillante richiamo dell’esistenza. Per il sostituto procuratore le uniche risposte che vale la pena cercare sono nelle foto e nei verbali delle indagini. Rifiuta la morte di sua moglie ma vive della morte degli altri.

Al polo opposto, ma parimenti incapace di elaborare il lutto, la figlia Olga, che annienta il suo corpo nell’anoressia. Olga cerca risposte e prova a darsele incolpando il padre o infliggendosi punizioni tra digiuni, abbuffate e conati di vomito. Vive il trauma dell’essere ancora nel mondo senza sapere perché sia richiesta la sua presenza.

 

Si ride molto meno in questa parte del film. E allora a ristabilire l’equilibrio tra il nero e la commedia, ci pensa la terza protagonista, Anna, la terapista che ha in cura Olga. A dire il vero, sarebbe una figura tragica. Segnata da un tremendo lutto, la morte del figlioletto, Anna è riuscita a superare il trauma, forse sacrificando le sue relazioni col mondo esterno, anche se a differenza di Janusz, si prende cura dei vivi. Con un cane di dimensioni enormi che la disturba mentre mangia rigorosamente da sola e cerca di vedere la tv, capace di lavorare con le emozioni altrui, si scopre dotata di un potere sovrannaturale: sa ascoltare i defunti. In quei suoi rituali quotidiani ritroviamo il gusto di fare un po’ di autoironia su noi stessi. E forse è proprio da lei che Olga e perfino Janusz debbono ripartire, non tanto per trovare delle risposte che non ci sono ma per riprovare a farsi delle domande l’un l’altra. Commedia e noir di nuovo insieme.