Chi ha letto Così ha inizio il male di Javier Marías ha già avuto occasione di imbattersi nel personaggio «erudito, studioso, dissipatore di errori», dall’eleganza negletta e dal tono mordace, che tanto nella finzione quanto nella realtà risponde al nome del «Professor Francisco Rico». Si può rimanere stupiti se ci si ricorda che questa «eminenza» della filologia, pronta a vessare (nel romanzo) «quasi tutti gli esseri viventi» col suo umorismo sprezzante, ha dedicato buona parte dei propri studi a Petrarca, un poeta, a suo dire, del tutto «privo di sense of humor». Se il poeta del Canzoniere continua ancora oggi ad affascinare il filologo, lo si deve in prima istanza alle «bugie» e ai «montaggi» di cui si è rivelato capace.
Affermava Dante nel Convivio che scrivere di sé non è lecito, a meno che attraverso la propria storia non si riesca a istruire gli altri o a evitare le loro calunnie. A partire almeno dal 1974, con la Lectura del Secretum, le indagini di Rico si sono impegnate a mostrarci quanto un simile interdetto all’autobiografia abbia potuto gravare sui progetti di Petrarca, determinato a parlarci di sé non appena impugna la penna.

Fino ad ora sono stati gli strumenti del filologo, uniti al rigore dello storico, che hanno consentito a Rico di smascherare una dopo l’altra le strategie, le tattiche e le manovre con cui Petrarca manipola e corregge nel tempo il proprio autoritratto letterario, fino a conferirgli un’esemplare dignità. Sulle stesse questioni e con gli stessi strumenti, ma in prospettiva in parte ribaltata, Rico torna anche nei Venerdì del Petrarca (Adelphi, pp. 216, euro14,00) per mettere in luce inedite procedure di mistificazione.

È necessario sottoporre l’insieme dei testi di Petrarca a una serie di sistematici controlli incrociati per accorgersi che eventi cruciali della storia del poeta, così come lui stesso ce li racconta, sono accaduti di venerdì. Il venerdì «prettamente di Petrarca – spiega Rico – incornicia o scorta un dato di spicco»: è un modo per marcare alcune tappe decisive dell’esistenza, per scandirla in capitoli, darle forma di libro e consentirle, allo stesso tempo, di entrare a far parte della letteratura. Anche se poi, seguendo questa pista, le sorprese non mancano.

Da una parte, le forzature e le aggiunte apportate da Petrarca generano incongruenze che, al contrario di quanto ha professato «per convenienza» una certa critica, mettono in risalto la natura stratificata, non unitaria e mai del tutto «compiuta» del Canzoniere. Dall’altra, l’opera di Petrarca finisce per assomigliare, nel complesso, a una sorta di codice cifrato, perché il poeta si affretta a occultare al suo interno le indicazioni cronologiche più circostanziate. Succede infatti che le fasi generali della storia di Petrarca vengano fornite ai lettori, mentre la «scelta» del venerdì resta un «dato privato» e invisibile ai più, che ha significato «esclusivamente per il poeta», oltre che per il filologo intento a pedinare le sue manovre.

«Un mio scritto ancora inedito si intitola Petrarca sul palcoscenico», ha confidato Rico durante il nostro incontro nelle sale dell’Università di Bologna. Il sistema delle opere di Petrarca, in questo senso, ci appare come un grande spettacolo che il poeta mette in scena per se stesso, prima che per la posterità, avvalendosi talvolta di battute e ammiccamenti destinati a lui solo. Se la letteratura, in questa sacra rappresentazione, ha spesso assunto le vesti del suggeritore, l’occhio del filologo può ancora servire per rivelare al pubblico preziose indicazioni di regia.
In occasione del suo ingresso alla Real Academia Española nel 1987, lei ha dichiarato che l’obiettivo dello storico della letteratura sono «i testi nel tempo» e il «dialogo dell’opera singola con le molteplici fasi della tradizione». Oggi, dopo quasi trent’anni, è ancora dello stesso parere?
Sono sempre dello stesso parere. Come si dice in spagnolo, ho una mentalità «genetica». Capisco le cose quando le seguo dall’inizio e vedo poi come si sviluppano nel tempo. Prendiamo il tema della fortuna dei classici: fino al Novecento, Petrarca è stato un autore molto più importante di Dante, che invece è stato rivalutato solo dall’Ottocento in poi. Ma penso anche al Don Chisciotte di Cervantes, che fino alla fine del Settecento è stato letto come un personaggio assolutamente grottesco e ridicolo, mentre poi a partire dal Romanticismo si è cominciato a prenderlo sul serio, pur mantenendo intatti alcuni suoi tratti comici. Ogni epoca ha le sue peculiarità nell’interpretazione del testo, che è mutevole e ci dà sempre l’occasione di rilevare cose che altri non vedono. È l’effetto dei classici: questa possibilità di leggerli in modo diverso.

Con il suo libro «L’uomo come microcosmo», nel 1986, lei ha praticato una sorta di critica tematica, che sul modello dei lavori di Curtius – e in parte di Spitzer – pedina l’evoluzione di una determinata idea all’interno di una tradizione letteraria, nella prospettiva della lunga durata. Questo modello le sembra ancora praticabile? Oppure le risulta più proficuo concentrarsi sull’esame di un singolo scrittore e della sua opera, come ha fatto nei «Venerdì del Petrarca»?
Penso ancora che i lavori di storia delle idee continuino a essere utili e importanti, perché ci permettono di capire lo sviluppo, ma anche la scomparsa di alcuni concetti. È un metodo che si può applicare ancora e con risultati molto interessanti. Quando ho scritto il libro avevo in mente i modelli di Curtius e di Spitzer, ma in particolare anche quanto è stato fatto negli Stati Uniti col filone della History of Ideas da Arthur Lovejoy e da altri alla Johns Hopkins University. Anche se è un procedimento che può sembrare scontato, ma può mostrarci le idee che sono state fondamentali nella cultura europea, tanto nel campo della filosofia, quanto nelle scienze, nella letteratura o nelle arti. Questo tipo di critica ci offre alcune chiavi di accesso al mondo degli antichi. Non si tratta tanto di chiavi interpretative da applicare al presente. Anzi, è importante che siano chiavi di accesso oggi sconosciute, o magari dimenticate, che ci consentono di esplorare un diverso orizzonte.

Dal suo ultimo libro, «I Venerdì del Petrarca», emerge, molto netta, l’immagine di un poeta che amministra e costruisce pezzo per pezzo, tanto nel «Canzoniere» quanto nel resto della sua opera, il proprio autoritratto ideale. Accantonata una volta per tutte l’idea della «naturalezza» dei sentimenti, propagandata da alcuni romantici, Petrarca ci viene raccontato come un abile ingegnere della storia del proprio io. Oltre ai silenzi e alle omissioni, più volte notate nel suo libro, quali sono le principali procedure di mistificazione e di manipolazione di cui si serve Petrarca?
L’operazione decisiva compiuta da Petrarca consiste nel segmentare la sua stessa vita in capitoli, che hanno spesso qualcosa a che fare con la giornata del venerdì. Non sappiamo esattamente il perché. Prenda la famosa ascesa al Monte Ventoso. Petrarca non dice mai che è accaduta di venerdì, ma possiamo esserne certi. Ci sono inoltre due tipi di venerdì. Quelli ufficiali, che gli permettono di suddividere la sua vita in parti, e quelli privati, che gli servono per marcare avvenimenti interiori.

Una delle dicotomie più significative che il suo libro fa emergere si basa sulla distinzione fra «pubblico» e «privato». Può spiegarci il diverso modo di procedere adottato da Petrarca nei due ambiti?
È una delle novità del libro. Prendiamo la nota scritta da Petrarca sulla morte di Laura ad esempio, riportata sul foglio di guardia del codice di Virgilio. Si dice che quella deve per forza essere una nota veritiera, perché è una nota privata. Ma come? Il codice di Virgilio è il manoscritto più importante della biblioteca personale di Petrarca: con tutta l’esperienza che aveva nell’acquisto di libri, ognuno con appunti di mano dei loro possessori… questa non era una scrittura privata. Era, a tutti gli effetti, quella che il maestro Petrucci, insigne paleografo, definisce una scrittura «esposta». Se Petrarca scrive questo appunto nella prima pagina del libro fondamentale della sua biblioteca personale, non lo scrive per sé, ma per i posteri. Dunque esiste una doppia funzione della scrittura.

A forza di manipolazioni, omissioni e aggiustamenti, il «Canzoniere» innesca un processo di osmosi fra vita e letteratura: la vita viene sistemata, ordinata e «letteraturizzata» dal poeta, per poter essere degna di entrare in un libro. Alla base di questo fenomeno è possibile riconoscere uno dei «rituali» nevrotici di cui ha parlato anche Freud? E forse anche un atto demiurgico, attraverso il quale il poeta tenta di dominare il fluire inarrestabile del tempo?
Direi di sì. Qual è la storia reale di Petrarca e Laura? Solo quella che ci viene raccontata dal Canzoniere. Quella è la «vera» esistenza di questi due personaggi. Credo del resto che nella figura di Laura si fondano ricordi di diverse donne incontrate da Petrarca durante la sua vita. Ma quello che è veramente successo, quello che si è vissuto realmente, è letteratura. Tanto che qualche volta, invece di scriverle, Petrarca le cose le vive, come quando fa giardinaggio e coltiva i «lauri», le piante d’alloro. D’altra parte, Petrarca aveva un senso fortissimo della labilità del tempo, scrivere qualcosa significava, per lui, inscriverla nell’eternità.
Con Petrarca il processo di letteraturizzazione si spinge fino a toccare una dimensione circolare e totalitaria. Come dimostrano gli appunti di orticultura di Petrarca menzionati nel suo libro, sembra che la letteratura, con i suoi schemi, abbia orientato la vita prima ancora che venisse vissuta: Petrarca in alcuni casi – come ad esempio nelle sue pratiche di giardinaggio – «agisce come se scrivesse», compiendo una sorta di «rituale» letterario. È uno di quei casi in cui, come voleva Oscar Wilde, la vita imita l’arte e non viceversa?
Senz’altro. Come ho scritto nell’introduzione al libro, Petrarca nel famoso sonetto Solo e pensoso si equipara al personaggio di Bellerofonte: aveva sempre presente i modelli ideali della letteratura classica, che hanno determinato e influenzato la sua esistenza. Talvolta il poeta lo ammette apertamente, talvolta lo sottintende. Ma non può vivere senza un modello, perché vive immerso nella letteratura. Se rileggiamo il più grande libro in prosa di Petrarca, il De remediis, ci accorgiamo che le situazioni della vita quotidiana vengono affiancate dal modello umano, dagli aneddoti, dai riferimenti al mondo dei classici. Lì si vede con chiarezza che Petrarca fa passare la vita di qualsiasi uomo attraverso il filtro della letteratura classica, per lui essenziale.

«I Venerdì del Petrarca» si apre con una decisa distinzione fra il mestiere del critico letterario (che nel suo caso coincide con la prospettiva dello storico e del filologo) e le procedure del romanziere. Come sintetizzerebbe gli aspetti che dividono queste due figure?
In un certo senso, in Italia si parla ancora degli studi letterari come di studi scientifici. Si sa che qui la metodologia positivista è arrivata con il Risorgimento, con l’introduzione del metodo tedesco di Lachmann, almeno nel campo della filologia. E le cose sono rimaste in parte ferme a quel punto. Io non sono d’accordo con questa impostazione. Per me tutto è letteratura. Non c’è ragione per non creare un personaggio, uno sviluppo della storia, un intreccio quando si fa critica letteraria.

Quindi, anche il filologo, secondo lei, è in qualche modo autorizzato a utilizzare nei suoi libri un taglio narrativo, e talvolta a avvalersi di trovate romanzesche per assicurarsi il suspense e l’attenzione dei suoi lettori?
Anche di giochi linguistici. Ricordo quanto mi sono arrabbiato una volta perché da un mio articolo sul Petrarca latino mi hanno costretto a togliere un piccolo gioco di parole. Per loro non era ammissibile che lo usassi nel testo, dovevo sopprimerlo. Quando voglio far arrabbiare Javier Marìas, Eduardo Mendoza, Javier Cercas – i miei amici romanzieri – dico loro: «Bada che quello che fai tu è molto facile. Puoi inventare tutto. Io invece dispongo di un certo numero di dati e sono obbligato a combinarli e a farli funzionare insieme.» Scherzo, ma non ho tutti i torti. Se un critico riesce a combinare tutti i dati che ha a disposizione, può scrivere un testo che interessi il lettore, o che per lo meno gli dia il desiderio di continuare la lettura fino alla fine.

Da almeno un decennio, in Italia, si parla di crisi della critica letteraria. Se da una parte non sembra del tutto esaurito il desiderio di leggere, dall’altra rimane sempre più esiguo l’interesse rivolto dal pubblico ai prodotti della critica. Pensa che i critici stessi siano almeno in parte responsabili di una simile situazione?
Stiamo assistendo alla scomparsa della letteratura dall’orizzonte delle persone comuni. In Italia essa gode ancora di un certo interesse, forse meno che in Francia, ma di certo più che in Spagna, dove ormai si legge poco. Non c’è bisogno di rinunciare al rigore e i modelli non mancano. Si può ancora essere eredi di un filologo come Contini, se ci si ricorda di coinvolgere i propri ascoltatori, come facevano ad esempio Giacomo Debenedetti, o in prospettiva più militante Alberto Asor Rosa, oppure, fuori dall’Italia, George Steiner.

In epoca di crisi della critica, quali devono essere a suo avviso i capisaldi irrinunciabili del lavoro del critico? Quali i suoi metodi e le sue funzioni?
Se si vuole che la critica sia letta da molti, non può accontentarsi di essere una faccenda d’élite, riservata a un clan ristretto. Per questo dico che un buon testo di critica letteraria dovrebbe essere in qualche modo letterario. Ecco, potrei formulare una specie di regola: chiunque abbia letto con piacere un’opera di letteratura, o un romanzo – mettiamo Don Chisciotte o Anna Karenina – dovrebbe essere messo in condizione di leggere con lo stesso piacere, e con profitto, anche il lavoro dei critici su quegli stessi romanzi.

Proprio in occasione della morte di Gianfranco Contini, lei ha affermato che «non c’è ragione per cui uno studioso scriva peggio di un creatore». Lei dà per scontato che l’utilizzo di un linguaggio specialistico, o comunque raffinato, rischi di allontanare la critica letteraria dal lettore «comune»?
Penso ancora che non ci sia ragione per cui un articolo, un saggio o un libro di critica non debbano essere scritti con la stessa eleganza di un romanzo. Il maestro Contini, del resto, è stato generosissimo con me: se mi si conosce in Italia, in parte lo devo a lui. Ricordo la prima volta che ho tenuto una conferenza alla Normale di Pisa, con un discorso sul primo sonetto del Canzoniere di Petrarca, che poi ha avuto molta diffusione. Contini, che allora insegnava lì, era tra il pubblico in prima fila. Quando ho finito di parlare, tutti si sono rivolti verso di lui, e solo quando lui ha cominciato ad applaudire gli altri lo hanno seguito. Ci legava anche una certa complicità: nomi di filologi come Menéndez Pidal, Joseph Bédier, Gaston Paris, che per altri italianisti «puri» erano ancora lontani, per Contini e per me erano familiari.

Lei ha dichiarato che un classico come il Don Chisciotte – di cui peraltro ci ha fornito un’esemplare edizione critica – non si dovrebbe leggere nelle scuole, perché in realtà è un libro per adulti, non per ragazzi abituati a leggere «testi di cinque righe». Molto meglio limitarsi a proporre una lettura «per frammenti» del romanzo. Questo vale anche per il «Canzoniere»?
Del Chisciotte ho preparato due edizioni. La prima è il testo critico, una specie di «meta-testo», con tutti gli apparati e le note. Poi ho curato la vera edizione, che è quella senza note e apparati, destinata al lettore comune, obiettivo concreto dello scrittore. Cervantes stesso afferma nel prologo che il suo libro non ha bisogno di note, perché in realtà pensa di scrivere per il lettore ingenuo. Quest’ultimo deve essere il vero destinatario dell’edizione critica. Quanto alla lettura per frammenti, oggi funziona così. Tutti conosciamo a grandi linee la storia di Petrarca, così come quella di Don Chisciotte. Io raccomando sempre, quando si comincia la lettura del romanzo, di procedere a caso, qua e là. Poi, alla fine, si arriverà a volerlo leggere da capo. Non è un atteggiamento molto lontano, a pensarci, dall’idea originaria di Cervantes, che pensava più al Chisciotte come a una miscellanea che come a un romanzo. Pensava inoltre a un libro che non si legge ma si ascolta, seduti in circolo, dove si può trovare divertimento «per due ore», appunto perché immaginava una lettura orale, per brani. Anche Petrarca la pensava in questo modo. E dunque è molto meglio leggere il Canzoniere per parti, anche se non ci si rende conto dell’architettura complessiva. Del resto, a quale vero lettore interessa l’architettura narrativa? Solo ai professionisti. Petrarca lo dice fin dal titolo della raccolta che i suoi sono fragmenta, o meglio Rerum vulgarium fragmenta. L’architettura di un libro si può ammirare, ma non dà piacere.