È una città stretta nella tenaglia di un duplice «stato d’emergenza», la Parigi teatro dell’ultimo giorno di Conferenza intergovernativa delle Nazioni Unite. Da una parte la morsa dell’état d’urgence, dichiarato e applicato dal governo Valls dopo le stragi del 13 novembre. Dall’altra l’«emergenza democratica» alla vigilia di cruciali ballottaggi che, per la prima volta, potrebbero consegnare al Front National alcune regioni dell’Esagono.

Una stretta che rischiava di ridurre al silenzio le mobilitazioni, colpite dal dispositivo poliziesco di limitazione delle libertà costituzionali. Ciò nonostante migliaia di persone hanno animato, nello spazio culturale Le Centquatre, le affollatissime assemblee della Zone d’Action Climatique, promossa dalla coalizione Climat21, e numerose iniziative a sorpresa hanno saputo, nei giorni scorsi, indicare efficacemente le responsabilità di multinazionali e istituzioni pubbliche nell’alimentare il surriscaldamento globale.

Ieri è stata la giornata in cui, finalmente, migliaia di attiviste e attivisti da tutto il mondo sono riusciti a rompere la cappa di piombo dei divieti, richiamando la necessità di intervenire sullo «stato d’emergenza climatico». Prima che sia troppo tardi. Fin dalla mattinata centinaia di ciclisti hanno attraversato la città, mentre diversi flash mob tracciavano una gigantesca scritta «georeferenziata» che, inequivocabile, recitava: «Climate Justice and Peace». Poi sono venute la musica, le danze, le urla liberatorie di oltre 15 mila persone che si sono date appuntamento, raccogliendo in maniera unitaria la proposta lanciata dalla coalizione globale 350.org per la creazione di un’enorme «linea rossa» che ha attraversato e invaso l’avenue de la Grande Armée, tra l’Étoile e i grattacieli del centro direzionale della Defense, sede delle multinazionali legate all’economia fossile. Una «linea rossa» destinata a simboleggiare il limite invalicabile di un grado e mezzo nell’incremento delle temperature medie planetarie nei prossimi anni, pena la catastrofica irreversibilità dell’impatto sugli equilibri ecosistemici. Ma anche la «linea rossa» da varcare per mettere in discussione le politiche del terrore e della guerra e lo stato d’eccezione liberticida che ne è il conseguente corollario.

Dopo due ore di blocco della circolazione, un corteo spontaneo, guidato dalla rete internazionale Via Campesina (tra cui gli agricoltori francesi della Confédération Paysanne), si è mosso superando i cordoni della polizia antisommossa, per raggiungere l’unico concentramento autorizzato della giornata: il raduno ai piedi della Tour Eiffel, sulla vasta spianata del Campo di Marte.

Anche in questo caso l’iniziativa era stata promossa da un coordinamento, quello di Alternatiba75, ma assunta con grande spirito collaborativo da molti altri. Qui hanno preso parola Climat21, Attac, gli esponenti di diverse lotte locali contro grandi opere «inutili e devastanti» e Naomi Klein, resa dal suo lavoro d’inchiesta una delle voci più autorevoli nel movimento per la giustizia climatica. Proprio la Klein ha espresso il punto di vista della piazza sull’accordo appena raggiunto: «Un testo che ignora il necessario sostegno ai paesi più vulnerabili, che assume solo generici intenti, senza concretizzare la volontà di indurre le multinazionali a riconoscere le loro responsabilità. Toccherà a noi – ha insistito la giornalista-attivista canadese tra gli applausi di oltre 25 mila persone – farlo dal basso».

E le occasioni non mancheranno: sono stati infatti ricordati gli appuntamenti con la mobilitazione europea di Ende Gelände, a maggio, per bloccare la più grande miniera di carbone nel bacino della Ruhr. E il ruolo, decisivo, dei governi metropolitani, che possono diventare i protagonisti di una transizione ecologica e sociale, attraverso la costruzione di città fossil-free.

Nei prossimi giorni sarà possibile trarre un bilancio più definito di queste settimane parigine. Per il momento, come ci dice Marica Di Pierri di A Sud, tra i pochi italiani presenti alle mobilitazioni:

«Di fronte alla volontà dei governi di non porre in discussione l’estrazione di combustibili fossili dal sottosuolo, si tratta di tornare a lottare nei nostri territori contro ogni progetto impattante, a partire dalle trivellazioni. Ma di farlo fuori da ogni logica localistica, inscrivendo ogni singola battaglia nella lotta globale per salvare il pianeta». La giornata di ieri dimostra che un movimento mondiale che si propone di «cambiare il sistema per non cambiare il clima» non solo esiste, ma è in buona salute, forza capace di disobbedire allo stato d’eccezione.