La residenza estiva di Luigi Serafini sta in alto, sulle colline della Val d’Aso, si raggiunge seguendo una stradina sterrata tortuosa. È una casa colonica con un grande giardino panoramico a semicerchio: da qui si vede in lontananza l’autostrada dove corrono le auto del rientro, il paese di Pedaso e l’Adriatico, la notte il movimento è fatto di schizzi di luci, riverberi, lampi luminosi.
L’hanno sempre chiamata «L’uccellaccio», spiega Daniela, la sua compagna, per via della presenza di insidiosi falchetti, civette, fagiani, e anche di picchi maldestri che hanno bucherellato di recente le persiane. Il giovane inquieto ed errabondo che negli anni ’70 viaggiava in sacco a pelo e Rolleiflex lungo gli Stati Uniti come Felix Winter in Alice nelle città di Wenders, invaghito dell’underground e le controculture, andava a Babilonia e attraversava l’Eufrate, visitava l’Africa equatoriale, usando la Mescalina come William S. Burroughs e gli scrittori beat, l’artista amato da Fellini è arrivato da poco, ha un’aria mite da mago Merlino, curioso e divertito dall’assurdità del mondo e della vita. E sorride.
La sua vita artistica è iniziata proprio in questo piccolo paese delle Marche, dove è nata sua madre e tornava ogni anno per le vacanze da bambino, al mare a tirare la sciabica con i pescatori, ma anche camminando e perdendosi in questa campagna rigogliosa e fiabesca fatta d’erbe e d’animali, di luoghi segreti e solitari da esplorare, cominciando così ad educare lo sguardo futuro. I genitori, vista la sua grande abilità nel disegno, lo mandarono da un pittore locale di formazione accademica, insegnante di educazione artistica nelle scuole.
Di quella stagione lontana resta una particolarissima natura morta del 1960, straordinaria se si pensa che Luigi l’ha dipinta a soli undici anni: in primo piano, un vaso bianco con dei fiori recisi sopra una colonna di un terrazzo, in cima a una parete attraversata da una inquietante lucertola cacciatrice e, in lontananza, il paesaggio che vediamo adesso, seduti nella parte di giardino arredata, con una collinetta sulla destra e subito dopo la distesa blu del mare. «Si assiste alla normalità della natura, da una parte il paesaggio, l’umano, dall’altra un ramarro che ha catturato una farfalla, questo altro mondo che spesso non guardiamo. In questo momento siamo seduti», dice svagato, «e sotto di noi stanno succedendo tragedie tra formiche o chissà, c’è tutto un movimento di cose».
La metamorfosi, il divenire, la trasformazione perpetua, il moto continuo delle meccaniche, sono al principio di ogni lavoro leonardesco di Luigi Serafini, e la moltitudine complessa che ricorda le rappresentazioni infernali di Bosch, soprattutto nell’Opera cult Codex Seraphinianus, che uscì la prima volta nel 1981 nell’elegante veste editoriale di Franco Maria Ricci con la prefazione di Italo Calvino, che proprio in questi ultimi anni ha ritrovato un nuovo successo nella ristampa ampliata fatta da Rizzoli, soprattutto negli Stati Uniti.
Lo scrittore deus ex machina dell’Einaudi definiva il suo lavoro «L’enciclopedia di un visionario», cogliendone subito il conio: «Serafini crede nella contiguità e permeabilità d’ogni territorio dell’esistere. L’anatomico e il meccanico si scambiano le loro morfologie (…), l’umano e il vegetale si completano».
Luigi Serafini parla lentamente, sempre divertito, racconta del suo legame profondo con questo luogo. «Quando venivo d’estate, stavo per un periodo nella villa qui sotto di proprietà di parenti acquisiti, che per me era un luogo magico, piena di oggetti, ricordi di viaggi, giunti da mezzo mondo. Arrivare dalla città ed entrare in questa specie di osservatorio era incredibile, c’era di tutto, dalla pelle di leone al cannoncino di bronzo, la carta da parati con le decorazioni, ricordo un bambola giapponese dentro una scatola, gli arazzi, una specie di museo della vita». Il resto della villeggiatura lo passava in una casa del borgo marinaro.
All’epoca della natura morta che dipinse, Pedaso era un piccolo paese di pescatori, nel quadro si vede la chiesa, un gruppo di case, poco altro. «Da una parte c’era l’Adriatico, i pesci», racconta mentre sorseggiamo un buon bicchiere di Passerina freddo e profumato, «i racconti della pesca, poi la campagna, gli animali, la civiltà contadina, e anche la storia del paese che prima era sul crinale; poi, alla fine del Settecento, ci fu un crollo, quasi tutta Pedaso finì in acqua, e questa fu una catastrofe, ma nello stesso tempo anche una fortuna perché poi su questi scogli si attaccò la cozza, e il paese diventò famoso per questo».
Divertito da questa trasformazione vera, storicamente censita, il Serafini visionario della realtà è esteticamente appagato da questo trapasso riuscito nel destino della catastrofe fortunata mentre racconta. La stesse catastrofi, trasformazioni, strani marchingegni che muovono la vita del suo Codex, un blog ante litteram in fieri fatto di pesci-occhi che nuotano nel mare, uomini che diventano coccodrilli in un accoppiamento escheriano, alberi surreali di una Enciclopedia immaginaria di un mondo impossibile e stranissimo, quasi come il linguaggio criptico che dovrebbe descrivere un altro universo, secondo Calvino un pretesto sintattico arcano: «la scrittura serafiniana, se ha il potere d’evocare un mondo in cui la sintassi delle cose è stravolta, deve contenere, nascosto sotto il mistero della sua superficie indecifrabile, un mistero più profondo che riguarda la logica interna del linguaggio e del pensiero».
Questa infanzia di sogno, sospesa tra i riti del mare e la campagna marchigiana un po’ magica, che da questa stessa parte di regione ha infiammato anche l’immaginazione creativa di Osvaldo Licini e Tullio Pericoli, è tornata in un cortocircuito quando la casa editrice Rizzoli chiese a Luigi un libro per i cento anni della Bur.
Scelse le Storie naturali di Jules Renard che i genitori – vista la sua passione fortissima per la natura -, per ogni forma di vita, dalle piante agli animali, gli avevano regalato proprio in una di quelle estati di tanti anni prima, ma che pur conservandolo come una specie di talismano stranamente non aprì mai.
«Quando l’ho letto sono rimasto a bocca aperta per la leggerezza, la delicatezza e la profondità della narrazione, che è lirica, cioè fantastica, ma allo stesso tempo scientifica. C’è sempre l’elemento di osservazione naturalistico», dice. Come i suoi quadri, frutto del lavoro di un artista multiplo (pittore, grafico, designer, architetto, scultore) che più che creare sta dentro un mondo parallelo. Quando glielo dico, risponde serio: «Forse è una forma di autismo consapevole, perché poi in questi mondi che creo mi trovo molto meglio. Sono sempre in una soglia, tendo a richiudermi, sono un po’ borderline».
Il risultato è sorprendente, la botanica fantastica, a volte un po’ psichedelica, diventa una vegetazione più vera del vero perché guardata dagli occhi di un visionario capace di potenziarla nell’invenzione.
L’attualità è proprio una cosa priva di interesse? Azzardo. «La realtà politica, economica, m’incuriosisce, m’interessa, la seguo, anche nel Codex ci sono molti riferimenti, però li debbo riportare in quest’altro mondo. Viviamo in una dimensione apocalittica, di rivelazione, dall’economia alla fisica quantistica, le scienze ci hanno fatto capire che sappiamo anche quello che non sappiamo.
È come se in questo momento si fosse rivelato tutto, una specie di fine del futuro, neanche la fantascienza riesce a sorprenderci più. Prima o poi avremo dei pattini che ci solleveranno, ci sposteremo su delle tavolette a energia, mangeremo un osso di seppia macinato che produce chissà quale cosa».
Ecco, mago Merlino mentre parliamo è tornato ancora una volta nel suo mondo, con quest’aria un po’ sognante, forse la stessa che cominciava più di mezzo secolo fa tra queste campagne dove il ragazzo selvaggio entrava per la prima volta con gli occhi spiritati, il cuore palpitante, la curiosità a mille, nel suo bosco magico.