Nel 2006 fece scalpore in Gran Bretagna – e non solo – un’intervista al principe Carlo: raccontò che il suo cantante preferito era Leonard Cohen. I pianeti si allinearono, il regnante schernito da sudditi e media perché sempre incline alla cupa introspezione stava disvelando uno dei suoi ispiratori. Il figlio William, appassionato di rap, chiese davanti alle telecamere se quel musicista facesse jazz e il papà, in una vertigine di iperboli: «È straordinario; l’orchestrazione è fantastica, così come i testi e tutto il resto. E poi ha questa voce pacata, roca, ghiaiosa». Prince Charles sorprese tutti con la sua valutazione artistica; altro che solo abiti neri e quel canto monocorde che sin dagli esordi gli avevano attirato addosso lo scherno dei critici, soprattutto inglesi. Altro che poeta laureato del pessimismo e soliti stereotipi. Addirittura in Gran Bretagna in molti sostenevano che pezzi come Suzanne o Bird on a Wire andassero commercializzati con appositi gadget: lamette per tagliarsi le vene. All’indomani dell’intervista una giornalista britannica dichiarò alla Reuters: «Cohen è la scelta perfetta per un uomo così introverso. Carlo è un pessimista come Cohen». Pessimismo, autocommiserazione, melancolia, tristesse. Raramente – parlando di Leonard Cohen – si è andati oltre il comodo «ostacolo emotivo». Tanto che lo stesso artista finirà per essere così parte del gioco – almeno dal punto di vista iconografico – da finirne egli stesso intrappolato. O almeno fino a due anni fa quando in maniera cristallina – e chiusa per sempre l’era dei riserbi – utilizzerà un brano, Slow, per spiegarsi al meglio: «Sto rallentando la canzone/Non mi sono mai piaciute le cose veloci/Tu vuoi arrivare presto/Io voglio arrivarci per ultimo/Non è perché sono vecchio/Non è perché sono morto/Mi è sempre piaciuto andare piano/Questo è quello che diceva mamma» (su Popular Problems del 2014).

Leonard Cohen se ne è andato a 82 anni. Poeta, scrittore, musicista – secondo solo a Dylan – l’artista canadese, nato a Westmount, un sobborgo abbiente di Montreal, ha attraversato in un rumoroso silenzio il mondo del pop. Canzoni come Suzanne, So Long, Marianne, Sisters of Mercy o Chelsea Hotel No2 (sulla sua relazione con Janis Joplin) coesistono con le sue raccolte di poesie, i due romanzi, l’amore per Elvis e per il country; e tutto sta contemporaneamente dentro una vita spesso inquieta e una scrittura che sempre ha risentito del suo approccio eterodosso a ebraismo, buddismo zen (diventerà un monaco zen) e cristianesimo. Uno stile così pungente, sofisticato, paradossale e contraddittorio che indurrà lo stesso Dylan a sentenziare: «Il suo dono o genio è in rapporto con la musica delle sfere».

La grande caratteristica di Leonard Cohen è stata la capacità di illuminare all’improvviso chi lo stava ascoltando, di cambiare in un lampo il senso e il verso di una storia. Come fa Tom Waits in tanti suoi dischi quando – tra rantoli vocali e vertigini cacofoniche – è in grado di infilare una ballata lieve e inattesa. Spesso sospesi in una attenta alternanza di accordi maggiori e minori – da cui quell’incedere sonoro così malinconico tipico dell’artista – i testi del musicista sfruttano un’aura sonora composta e discreta per poi lacerare chi ascolta. Con Cohen bisogna stare sempre molto attenti. Come nel caso di Hallelujah, uno dei suoi brani più noti, reso popolare anche e soprattutto dai rifacimenti di John Cale e Jeff Buckley. Il pezzo contiene colti riferimenti al Vecchio Testamento, al dio offeso che però sa perdonare, a spirito e carne («ricordi come mi muovevo dentro di te»), amore e dramma. Un verso è emblematico: «L’amore non è una marcia vittoriosa, è un alleluia freddo e spezzato».

Cioè: bisogna lavorarci molto e quei sacrifici possono lasciare cicatrici. Hallelujah è dunque tutt’altro che un inno all’amore idealizzato, nonostante la versione di Rufus Wainwright (nella colonna sonora di Shrek) ce lo abbia fatto credere. Tra orchi e orchesse sposi e amanti per sempre. I fan ricordano bene quello che avvenne con Death of a Ladies’ Man, l’album del ’77 prodotto da Phil Spector in cui Cohen ghigliottinava il folk acustico che fino a quel momento lo aveva caratterizzato, infilava un florilegio di pezzi incentrati su sesso sfrenato e voyeurismo sfrenandosi in Don’t Go Home with Your Hard-On, mai andare a casa con un’erezione, la sua raccomandazione più funky e movimentata di sempre: ai cori John Lennon e Allen Ginsberg! Splendido shock per tutti. Molti anni dopo, un altro colpo, stavolta al pacifismo. In un’intervista confessò che ogni giorno Spector sfoggiava in studio una sfilza di armi da fuoco. «Piacciono anche a me – racconterà Cohen – ma di solito non me le porto mai appresso».

Insomma, un santo molto diavolo che già nel ’74 aveva dedicato – a chi lo giudicava – A Singer Must Die, in cui un cantante confessa di aver tradito e mentito al suo pubblico e di aver «appestato l’aria con la mia canzone». Ma è proprio questo groviglio vitale di emozioni che ha consegnato Cohen alla storia del Novecento. Non a caso in Una vita di Leonard Cohen, la biografia di Ira B. Nadel viene raccontato un episodio straordinario.

Nel ’72 l’artista va in tilt a Gerusalemme durante l’ultima tappa del tour mondiale. Dal palco racconta che le sue canzoni sono meditazioni e che «stasera non avverto nulla di mistico», quindi «continuare sarebbe una truffa»; informa che i biglietti verranno rimborsati e fila via nel camerino. Lì piange a dirotto, si accende un sigaretta, si fa un acido, torna sul palco (la scena è anche nel documentario Bird on Wire dedicato proprio a quella tournée). È un uomo nuovo. L’ennesimo, inafferrabile Cohen. Fino all’altro giorno, quando l’imprevedibile si arrende all’ineluttabile e – sullo stile di Blackstar di David Bowie – il pezzo che dà il titolo al nuovo disco (You Want It Darker) diventa illuminante e definitivo: «Lo vuoi ancora più scuro, uccidiamo la fiamma… sono pronto mio signore».