Salutato da un vero assalto nei cinema a inizio stagione 2014/15 all’indomani della presentazione a Venezia, Il giovane favoloso è rimasto a lungo in programmazione conquistando a sorpresa anche un pubblico giovanile e, in genere, popolare. Le altre categorie di spettatori si sono, come sempre nel caso di Martone, spartite pareri diversi, ciò che non stupisce visto che ce ne era, come si dice, per tutti: chi disponeva di chiavi per accogliere anche le immagini più difficili, i toni più rabbiosi, i momenti più cupi, chi si limitava a gustare i passi più limpidi della narrazione, dove le qualità formali sono più facili da discernere, chi infine, anche questa volta, manteneva le proprie riserve sulla filmografia martoniana.

A me, lo dico subito, il film è piaciuto tanto e per intero, dopo qualche incertezza momentanea su alcune scelte ermeneutiche riconosciute poi come assolutamente consistenti. Come nel film precedente, Noi credevamo, l’indimenticabile capolavoro del 2010, tratto in parte dal romanzo omonimo di Anna Banti, Martone fa anche qui i conti con due modelli contrapposti di Risorgimento, tanto peggio per chi gli imputa come squilibri interpretativi quelli che sono il più delle volte i passaggi più rilevanti del film odierno nel rispetto delle tesi storiografiche più aggiornate.

Martone, come sappiamo, è paladino del Risorgimento tradito, quello repubblicano e democratico, che perse nel 1861 la battaglia della libertà e con essa una vera unità del popolo italiano. Lo Stato italiano, sostiene, non solo nel periodo monarchico, ma ancora oggi a settantanni dalla nascita della repubblica, non è riuscito e non riesce a tenere insieme l’unità con la democrazia. Quando anche la cultura liberale dell’Ottocento italiano andava disponendosi, nel suo progressismo ottimistico, moderato, a cedere al compromesso monarchico di annessione di più stati in luogo della piena emancipazione di un popolo che si stringesse in unità nazionale, Leopardi, erede massimo del pessimismo filosofico della minoranza più irriducibile degli illuministi, alla fine della vita si renderà conto che il destino più alto dell’uomo non è, come questi crede, il raggiungimento vanaglorioso di una qualche immortalità, ma quello dello stoico, eroe involontario: in fondo lo stesso fato dell’umile ginestra che china il capo e viene sepolta dalla lava del vulcano.

In Noi credevamo dunque moti e pensieri individuali confluiscono e si consumano nel grande focolaio delle passioni collettive; per Il giovane favoloso, si tratta di una sola, grande esistenza, rimessa in luce, ovvero portata sotto una luce che illumina più e meglio il rapporto mentale del poeta con il procedere difficile della modernità europea in Italia. Un’opera, che, come leggiamo nel risvolto di copertina del volume della sceneggiatura, all’ultima riga, viene epigrafata sinteticamente, riprendendo il titolo dato da Giacomo stesso ad alcune pagine autobiografiche, «Storia di un’anima, raccontata con tutta libertà, con gli strumenti del cinema».

E l’anima di Leopardi, come nell’evocazione scelta a titolo del film, è quella, «favoleggiata» da Anna Maria Ortese, del giovane dormiente – da quasi due secoli – in un paese di luce al di là della grotta in cui è sepolto. Il cinema: di Mario Martone che condivide la sceneggiatura con Ippolita di Majo, storica dell’arte, alla sua seconda prova cinematografica.

Gli strumenti linguistici, tutti inconfondibilmente propri, in primis l’uso di immagini in transfert o corti circuiti (cui pure donerebbe la qualifica di favolosi) già presenti in Noi credevamo e qui entrati pienamente nella sintassi martoniana, per accompagnare lo svolgersi cronologico, oggettivo, del racconto con brevissimi, quasi subliminari, inserti che, non dovendo interrompere il filo della narrazione, gli si collocano vicino come interpunzioni necessarie quanto surreali. Dinanzi ad essi lo spettatore, sorpreso, per lo più è rimasto perplesso o ha reagito in negativo; mi riferisco a quello relativo alla morte di Teresa Fattorini, e all’altro che interessa una delle Operette morali, il Dialogo della Natura e di un Islandese. Disturba alcuni, nel primo caso, la presentazione della morta che, sollevata dai necrofori, sbarra gli occhi e subito li richiude mentre viene adagiata nella povera bara di legno grezzo, ciò che è da intendersi, secondo sceneggiatura, come allucinazione momentanea del poeta che le è di fronte (e siamo nel 1818).

Il passo può anche collegarsi (ed è bello che vi riesca) con il sublime finale di A Silvia, aprile 1828, dieci anni dopo la morte di tisi del personaggio reale, nella premonizione di Teresa/Silvia, viva ancora nei ricordi del poeta, quando la giovane, «all’apparir del vero» pre-vedeva e mostrava «di lontano» la «fredda morte», ed «una tomba ignuda». Altrettanto presente il raffronto con l’idillio di qualche anno prima (1825), Il sogno: l’apparizione del primo amore al poeta dormiente che sulle prime la crede viva anche se «trista».

L’altro caso si dà quando un vento improvviso segna il transito, subitaneo quanto «favoloso», dalla stanza fiorentina dove il poeta sta scrivendo alla madre per chiederle un aiuto finanziario, al deserto roccioso dove il volto di Adelaide Leopardi diventa quello della Natura, in forma di gigantesca statua di pietra che si manifesta all’Islandese, ovvero a Giacomo suo figlio, e, come nel Dialogo della Natura e di un Islandese, la gelida risposta della statua ai quesiti disperati dell’uomo è rinviata all’ignoto che governa l’Universo: la disumanità di Adelaide, «di volto mezzo tra bello e terribile», è di madre inconsapevolmente nemica dei propri figli, pronta al rifiuto della richiesta di Giacomo; questi peraltro, pur essendo il più infelice e bisognoso tra i fratelli, è il più disponibile alla compassione verso la madre: come si legge in una nota dello Zibaldone datata 1820 segnalata da Ippolita di Majo, dove egli la definisce: «carattere sensibilissimo … così ridotta dalla sola educazione».

L’inserto del Dialogo, anche questo va detto, è traccia, come molti sapranno, di un’altra precedente creatura di Martone e Di Majo a servizio di Leopardi, la rappresentazione delle Operette morali in forma teatrale per il Teatro Stabile di Torino: ulteriore esempio di ricostruzione critica di un’opera storico letteraria mediante strumenti e modelli canonicamente pertinenti a genere artistico diverso, da parte di chi sente una familiarità tale con l’anima del tempo, da poterne trattare liberamente, come interscambiabili, le diverse espressioni.

Quanto alla sceneggiatura nel suo insieme, i meriti sono dovunque, tanto nella ricerca a monte quanto nell’esito.

La selezione dei momenti biografici è stringatissima eppure perfettamente riuscita, non solo ovviamente nell’adeguarsi a una durata ottimale del film, ma in specie considerando quanto straordinariamente fitta di casi e movimentata sia stata l’esistenza del poeta: per esser quella di un invalido, morto a soli trentanove anni, è un vero miracolo come si sia riusciti a trovare i ritmi giusti per rappresentarne bastantemente l’infanzia e l’adolescenza felice, assieme a fratello e sorella, poi, i protratti anni giovanili di «studio matto e disperatissimo» con l’unico conforto dell’attenzione suscitata in Pietro Giordani, poi, la tentata fuga dalla casa paterna, poi, il primo allontanamento concesso, Roma; e finalmente, la libertà di muoversi avanti e indietro nell’Italia divisa degli Stati di Restaurazione, sempre nella più pesante ristrettezza di mezzi, per seguire da vicino l’edizione dei suoi lavori, incontrare quanti più protagonisti della cultura italiana ed europea, cercare e sperare miglioramenti di salute in climi adatti, coltivare qualche sogno amoroso.

La corrispondenza, familiare, amicale, professionale, resa penosamente affaticante dai problemi con gli occhi, ma fino all’inizio degli anni trenta ancora non limitata dalla sofferenza, fa da traccia, come un diario, della vita di società del poeta: la visita al salotto della marchesa Lenzoni e la magìa della visione notturna della «Psiche» di Tenerani, i pomeriggi deludenti al Gabinetto Vieusseux, i momenti di solitudine, di pace come di sofferenza, delle passeggiate solitarie lungo le rive erbose dell’Arno, i ricevimenti dove domina sfolgorante e sfuggente Fanny.

Firenze, ha, da sola, il compito di dover richiamare le altre città visitate più volte da Leopardi, come Milano o Bologna, che il film non tratta. Soltanto tre, infatti, non contando il ruolo speciale di Recanati, sono gli scenari cruciali. Roma, palazzo Antici Mattei, residenza dello zio materno, ovvero il buio del panorama italiano più conformista e reazionario. Firenze (e in appendice Pisa) già tanto desiderata e desiderabile nelle aspettative, prime impressioni e giochi amorosi a tre con Fanny e Antonio Ranieri, quanto deludente per l’irragiungibilità di lei e per l’atmosfera di troppo moderato progressismo nel Gabinetto Vieusseux, incompatibile con la passionalità e il pessimismo del giovane Leopardi.

Napoli, una fuga dall’Italia conosciuta, una felicità cercata con frenesia nelle curiosità e diversità della bellezza e della cultura del Sud, ma subito tradita dalla apatia, e acquiescenza generale, anche dei liberali napoletani. Martone e di Majo, napoletani, scelgono, pour cause, di sottolineare gli aspetti antropologici dell’ambiente che coinvolgeranno drammaticamente il poeta, gli ambiti più «neri» della vita del popolo, tra colera, miseria e fatalismo perenni, malavita, prostituzione.

Ancora tre, le figure chiave scelte, oltre alla famiglia. Pietro Giordani, il primo lettore e corrispondente di Leopardi da giovanissimo recluso a Recanati, figura paterna per tutta la vita di questi: fino all’ultima lettera inviatagli a Torre del Greco pochi giorni prima della morte. Antonio Ranieri e il sempre discusso e incertamente definito rapporto d’amicizia con Leopardi, che Martone decide senza esitazione di presentare come tale, ovvero l’unico legame assolutamente necessario al poeta dal momento in cui quello con la famiglia si fa sempre più estenuato, e la vitalità, come la dedizione, del giovane amico, una terapia benefica sempre più indispensabile; così come a sua volta Totonno sente necessarie a sé tanto la forza trascinante della personalità artistica di Leopardi quanto da parte propria l’esplicazione di una missione di servizio volontario cui è idealmente portato.

Amicizia solidale dunque, all’interno della quale, come capita e nemmeno di rado a quelle maschili, potrebbe esser rimasta sottintesa da entrambi la medesima inclinazione ad ignorare il fattore sessuale. Terzo personaggio, Fanny Targioni Tozzetti, femme fatale al centro della mondanità fiorentina in cui Leopardi è entrato: figura che nei Canti prende posto non in un componimento soltanto ma in un intero ciclo con il nome di Aspasia, quando il potere di seduzione di Fanny viene a scoprirsi come inganno crudele.

Resta da dire ancora della scelta degli attori, i cui personaggi appaiono sempre più che credibili, naturali. Mi limito per brevità a Monaldo (Massimo Popolizio), irriducibilmente tiranno, paternamente affettuoso. I tre fratelli adolescenti (Elio Germano, Isabella Ragonese, Edoardo Natoli), affamati di libertà e pronti ad ogni complicità e sotterfugio nei rari momenti liberi, eppure, come effetto della fruttuosa prigionia quotidiana in biblioteca, capaci anche di godere precocemente, di ogni forma di vita intellettuale: vedi l’arrivo della prima lettera che Giordani invia in risposta a una di Giacomo, letta da tutti e tre seduti fianco a fianco in giardino con la stessa e unisona eccitazione.

Grazie all’inquadratura che li riprende, scalati di profilo, facendo svettare così tre nasini identici: un’emozione incancellabile. Di Elio Germano resterà il ricordo di come riesce a rendere vera, l’infermità del personaggio da adulto.

Quanto al parlato, è ripreso quasi punto per punto dai testi di Giacomo e il miracolo dell’italiano moderno nato da lui è tale che pur potendo, gli spettatori più familiari con la prosa leopardiana, riconoscere questo o quel prelievo, ed essere quindi avvertiti del fatto che si tratta della lingua italiana rimessa a nuovo quasi due secoli fa, nell’ascolto si finisce per restarne inconsapevoli, tanto naturale e contemporanea a noi essa ci giunge all’orecchio. Particolarmente raffinato infine il trattamento vocale dei brani poetici presenti nel film, non in forma di lettura o di recita a voce alta, bensì di pensiero, nel momento in cui, formandosi, inizia a scorrere in parole e a posarsi piano, lento, sull’ascolto altrui: per me uno dei piaceri più intensi del film.

Per ultimo il referto sulle immagini, ciò che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere il piatto forte di questo testo, non solo perché ufficialmente l’unico di mia cosiddetta competenza, ma perché il giudizio da darne è di tutti il più inappellabile anche da parte dei «critici per forza».

Tutti noi storici dell’arte, colleghi di Ippolita di Majo, ci siamo gettati a capofitto a gara di riconoscimenti, ma ci siamo fermati subito dopo quello di Toma per la processione che impetra la liberazione dal colera, e al ricordo del materasso sul pavimento nello studio di Minardi, che figura nel quadro degli Uffizi e, nel film, sta nella stanza occupata da Leopardi e Ranieri in una delle case del soggiorno napoletano.

Da notare che il topos del pagliericcio o materasso in atelier per il pittore o lo scultore dell’Ottocento che lavora di notte e/o a lume di notte, è molto frequentemente utilizzato in riferimento alla vie de bohème degli artisti figurativi, non altrettanto in situazioni diverse.

Il resto è frutto della strapotente cultura visiva di Martone, e accanto a lui di Ippolita di Majo, per tutto ciò che è Ottocento, non soltanto napoletano: cultura tale da dar luogo a soggetti d’invenzione nei generi dell’epoca.

Esempi: la veduta (l’acquedotto nell’Agro romano sullo sfondo della carrozza in viaggio che attribuiresti ad uno studente francese tipo Chauvin), o il quadro di romanticismo storico, ed è la scena in cui Elvira (personaggio del poema storico Consalvo, ovvero Fanny Aspasia) si china su Consalvo (Giacomo) che, morendo, implora un ultimo bacio o, ancora, la figura del poeta che passeggia lungo il fiume facendosi confrontare con i personaggi di Telemaco Signorini sui Lungarni, o le stupende immagini di Torre del Greco, del Vesuvio, della terrazza della villa, che rimandano alla legione di pittori, stranieri e non, a Napoli e costiera.

Meravigliosa l’inquadratura di Paolina Ranieri che ricama, seduta tra luce piena e ombra distribuite geometricamente tra muri e tende, seduta su un divano in ferro, puro stile Carlo X, della manifattura della scuola degli artieri riformata ad inizio Restaurazione dall’architetto Niccolini toscano. Non sarà la luce pomeridiana del 14 giugno 1837 a villa Ferrigni a illuminare la scena cinematografica della drammatica fine reale di Giacomo Leopardi, ma un universale buio cosmico entro il quale il filosofo poeta vede «in purissimo azzurro … dall’alto fiammeggiar le stelle», e la «lenta ginestra», innocente vittima notturna del vulcano, è la sola vera compagna cui egli pensa – e gli autori del film hanno scelto – per la sua fine.