I sette banditi che il 27 febbraio 1958 assaltano in via Osoppo, a Milano, il furgone portavalori della Banca popolare di Milano e si portano via una marea di soldi senza sparare un colpo, sono tutti in tuta blu, travestiti da operai. Dieci anni dopo tondi, mentre il giudice legge la sentenza che li condanna all’ergastolo per una rapina finita con uno scontro a fuoco, cinque passanti morti e l’inseguimento più pazzesco della storia criminale italiana, Pietro Cavallero, Sante Notarnicola e Adriano Rovoletto intonano una canzone che più operaia non si può: Figli dell’officina. Sia Luciano Lutring, «il solista del mitra», rapinatore leggendario poi scrittore e pittore, graziato dal presidente francese Pompidou e dall’ italiano Leone, sia Luciano De Maria, il più spavaldo tra i sette di via Osoppo, ricordano, alle origini della loro scelta esistenziale, la durezza della vita delle loro madri nel dopoguerra. Operaie, o mogli di operai. Sono storie di banditi-operai quelle che Renato De Maria racconta nel bel docu-film Italian Gangsters, presentato ieri a Venezia. Banditi con l’accento lombardo o piemontese, cresciuti nei quartieri in cui di fabbrica si viveva e si moriva. Figli della guerra civile, nella quale avevano combattuto con Salò o più spesso con i partigiani, oppure del dopoguerra. Ragazzi che sparavano per sfuggire alla fabbrica e rapinavano per avere tutto quello che le officine del miracolo economico gli avrebbero altrimenti negato: i vestiti costosi, le macchine di lusso, le donne belle e sosfisticate, la libertà dal comando che erano destinati per nascita e censo a subire dalla culla alla tomba. Agli occhi di chi è abituato a identificare l’universo criminale con i romanzi criminali o le Gomorre del sud, questi gangster degli anni ’50 e ’60 possono sembrare marziani. Non convivono con il potere, tanto meno lo esercitano: lo combattono e ne sono coscienti. Non accumulano e non reinvestono: quello che rubano lo spendono a man bassa, a volte lo regalano. Erano i protagonisti di un mondo in cui la linea di demarcazione era ancora precisa, e non varcarla era punto d’onore. Alcuni di quei nomi, che occupavano le prime pagine e la fantasia popolare a metà del secolo scorso, sono oggi dimenticatio quasi. Come Ezio Barbieri, «il moschettiere del mitra»: spavaldo, chiassoso, esibizionista, un Vallanzasca degli anni ’40. Arrestato nel 1946, portavoce nello stesso anno dei detenuti nella più sanguinosa tra le rivolte di San Vittore e condannato per questo ancor più che per le rapine. Come Luciano De Maria, il più audace della banda di via Osoppo, zeppa di ex partigiani, o Paolo Casaroli, ex X Mas, e capo di una banda dove ex fascisti ed ex partigiani operavano fianco a fianco, accomunati più da un esistenzialismo ribelle che dall’ansia del facile guadagno. La scelta tra rigare dritto come solerti impiegati e delinquere la avevano affidata al caso: testa andiamo a lavorare, croce a rapinare. Quando li prendono, nel dicembre 1950, i due fratelli di sangue di Casaroli, l’ex partigiano Romano Ranuzzi e l’ex militante delle Brigate nere Daniele Farris, si sparano. Preme il grilletto anche il capobanda, ma ha finito i colpi e si salva.

Sono invece ancora ricordati Luciano Lutring, il rapinatore spericolato diventato artista affermato, Pietro Cavallero, il comunista cresciuto nella Barriera di Milano che con Sante Notarnicola, immigrato pugliese e anche lui operaio, interpretava il banditismo come guerra rivoluzionaria: «Io non volevo smettere. Quella era la mia guerriglia contro la società». E’ a tutt’oggi una sorta di leggenda nel mondo antagonista Horst Fantazzini, anarchico e figlio di anarchici, impegnato in una sfida personale con il sistema, prima con la vita fuori dalla legge, poi con una serie di tentivi d’evasione che lo terranno dietro le sbarre, mai piegato, fino alla morte.

Brevi e violente, le parabole di questi personaggi sono troppo dense e avventurose per essere raccontate in un film, e del resto per molti di loro è già stato fatto, nel caso di Lutring più di una volta. Renato De Maria ha scelto giustamente di limitare al massimo il racconto delle carriere criminali per puntare sulla ricostruzione di un ambiente, di un momento storico, di un intero Paese riflesso nel suo Underworld. Gli attori, tutti molto bravi, raccontano la loro storia senza aggiungere una sola parola a quanto effettivamente detto, nelle interviste o nei libri, dai personaggi reali. Sergio Romano intepreta Casaroli, Aldo Ottobrino Cavallero, Francesco Serrazza Papa Barbieri, Andrea Di Casa Fantazzini, Luca Micheletti Lutring e PaoloMazzarelli De Maria. Impegnati in una serie di monologhi, sono alle prese con una missione difficile. La passano tutti molto bene, qualcuno anche meglio. Il resto lo fanno i filmati d’archivio, tratti dai cinegiornali o dalla tv d’epoca, oppure dai film, quelli dedicati ai personaggi in questione ma anche dai capolavori del gangster movie italiano di Fernando Di Leo. Descrivono un’Italia e una malavita che vanno dal dopoguerra agli anni ’70. Prima di un cambiamento radicale nel quale siamo ancora immersi.