Ormai fuori commercio da qualche anno, Matriarcato e dee-madri (pp. 94, euuro 5,90) è stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 1995. Dobbiamo a Mimesis anche questa seconda edizione del volumetto di James G. Frazer. Il testo, agile e interessante, corrisponde alla traduzione di alcuni capitoli tratti dal secondo volume di Frazer, Adonis, Attis, Osiris, quarta parte dell’edizione integrale della sua opera in ventidue volumi, Golden Bough (Macmillan and Co., London 1951). Da quest’ultimo sono tratti anche i supplementi che vanno a creare l’appendice del libro.
I capitoli centrali attengono all’influenza del matriarcato sulla religione. Frazer ne individua un ottimo esempio nei Khasi, popolazione del Meghalaya orientale in India. La loro organizzazione sociale consta di clan esogamici matrilineari. La madre è il solo elemento unificante, proprietaria dei beni materiali e solo attraverso di lei si trasmette l’eredità. La superiorità delle antenate sugli antenati primeggia nei culti; sono solo la madre e il fratello di lei ad essere personaggi rilevanti. Così pure sono femminili le divinità alle quali ci si rivolge per la protezione della casa. Le sacerdotesse sono presenti a tutti i sacrifici e gli altri officianti, anche maschi, sono dei delegati. Anche nelle istituzioni degli abitanti le isole Pelew l’eredità è in linea materna; in questo gruppo etnico micronesiano, si assisterà ad una discendenza femminile appunto perché ogni clan o famiglia riconosce una donna come loro «fondatrice». Altrettanto dunque adoreranno una dea e non un dio, come emanazione di autorità femminile. La sussistenza dello stesso clan dipenderà dalla sopravvivenza delle donne; quelle più anziane sono politicamente e socialmente coinvolte negli affari e non mancano di essere consultate per le decisioni importanti. Nelle isole Pelew dunque, così come tra i Khasi e gli antichi egizi, non c’è un passaggio intero dal matriarcato al moderno patriarcato.
Secondo Frazer comunque, questi casi sono delle rarità e con certezza – secondo lui – la prevalenza femminile di questi esempi non inficia «la validità della regola generale per la quale la società umana è stata in passato e – poiché non muta l’umana natura – sarà con ogni verosimiglianza anche in futuro governata soprattutto dalla forza maschile e dall’intelligenza maschile». A cagione di questo punto Frazer sostiene che anche tra i Khasi, nonostante la proprietà fondiaria e la trasmissione in mano alle donne, il potere politico e di governo è in mano agli uomini. Con una sola eccezione infatti, le tribù dei Khasi sono governate da re e non da regine. Anche la Grande sacerdotessa delega il potere al figlio e al nipote o ad un parente maschio più lontano.
Dunque se il potere viene ereditato per diritto di madre, il re Khasi come gli abitanti delle isole Pelew lo esercitano autonomamente. Lapidario, Frazer conclude che «la teoria di una ginecocrazia è davvero un sogno di visionari e pedanti. E non meno fantastica è l’idea che la predominanza delle dee, in un sistema di matriarcato come quello dei Khasi, sia una creazione della mente femminile». Ciò perché secondo Sir Frazer, fine studioso ma poco avvezzo alla lettura di qualcosa di così potente come il principio materno, i grandi ideali religiosi che hanno segnato la storia sono sempre stati prodotti dall’immaginario maschile. Dunque, nonostante negli esempi riportati le dee siano preponderanti, ciò non significa che sia a causa di una «fantasiosa» preminenza immaginativa femminile. Il matriarcato indagato da Frazer è un momento di passaggio dal regno del dono, della condivisione, alla legge dove le restrizioni e i divieti precorrono il moderno sistema patriarcale. È infine una tappa nella regolamentazione dei rapporti di parentela.
Come nota Piera Candotti nella prefazione, «il punto più debole e contestato dell’immenso lavoro frazeriano è l’impalcatura teorica destinata a sorreggerlo. È stata spesso imputata – e non a torto – a Frazer scarsa attenzione ai problemi metodologici e assunzione acritica dei principi dell’antropologia positivista». La fortuna riscontrata dalla sua opera principale, Il ramo d’oro, pubblicata in Italia sotto forma di compendio, porta con sé luci e ombre. Da Marcel Mauss a Lévi-Strauss fino ad arrivare alle puntigliose sottolineature di Wittgenstein, il metodo di Frazer può essere inteso come «letterario»? Dunque capace, secondo Candotti, di «rendere parlanti e significativi i fatti e le cose»?
Di fatto, in questi ultimi anni gli approfondimenti sul matriarcato illuminano per esempio le definitive scoperte sulle divinità femminili della archeologia e linguista Marija Gimbutas, facendo riferimento ai tre volumi The Goddesses and Gods of Old Europe (1974), The Language of the Goddess (1989) e The Civilization of the Goddess (1991). A parte i primi studi di Johann Jakob Bachofen e di Lewis Henry Morgan, basterebbe leggere i recenti volumi di Heide Göttner-Abendroth per comprendere come gli studi matriarcali possano essere condotti su basi scientifiche e interdisciplinari. Come spiega la filosofa tedesca, Matriarché è origine e non dominio delle madri.
Questo principio nella sua chiarezza – che dà anche il titolo a un bel libro collettaneo curato da Francesca Colombini e Monica di Bernardo (Exorma edizioni, 2013) – non è un mero momento di passaggio ma una forma di società che può interrogarci ancora. Non solo perché esistono ancora comunità fondate sul principio del matriarcato – per esempio i Moso che vivono al confine con il Tibet, nelle province cinesi dello Yunnan e del Sichuan – ma perché il matriarché prevede forme di economia del dono, della conduzione pacifica della convivenza in nome delle differenze contrarie alla prevaricazione. Sia nei confronti dell’altro, sia nei confronti della terra in cui si vive. Chissà cosa avrebbe pensato Sir James Frazer di questi esiti imprevisti.