Scrivere sulla ristampa in via di pubblicazione della quadrilogia su Harry «Coniglio» Angstrom di John Updike è un lavoretto facile facile. C’è poco da dire: Updike è un grande, un grandissimo, ha la tempra del classico, resiste al tempo. Leggerlo o rileggerlo in quella gemma della prosa italiana che è la traduzione di Attilio Veraldi è un piacere intellettuale e poetico che sconfina nel benessere fisico. Ai fortunati novizi va detto, tuttavia, che la scelta di stampare prima il terzo titolo della serie – Sei ricco, Coniglio – e ora il secondo, Il ritorno di Coniglio (pp. 497, euro 22,00), che risale al 1971 è un po’ bizzarra. Ma ogni libro della quadrilogia corrisponde a un’epoca della vita del suo eroe, e possiede dunque una relativa autonomia.

C’è però un altro elemento di questa benemerita iniziativa editoriale che fa riflettere: la ristampa di Sei ricco, Coniglio, che vale come un’ottima introduzione all’intero ciclo, è arricchita da un bel saggio, fin troppo entusiasta, di Julian Barnes, e fin qui niente di strano; ma sulla bandella campeggiano due apprezzamenti altrettanto favorevoli, firmati da Ian McEwan e Martin Amis. È come se rilanciando i romanzi di Alberto Moravia si utilizzassero i pareri di tre scrittori francesi. Che Updike abbia dei problemi negli Stati Uniti non è certo una novità, così come non è una novità che lo stesso Updike sia il primo responsabile dei giudizi limitativi di molti palati fini, a causa di una produzione troppo fluviale e fatalmente disuguale (anche un fan come Barnes ammette volentieri di non aver letto tutti i suoi libri e sospetta che nessuno lo abbia fatto). Tutto questo ha riattivato in me il ricordo di un articolo su Updike di David Foster Wallace, poi raccolto in Considera l’aragosta. Conservavo il vago ricordo di qualcosa di ingiusto, e così sono andato a rileggermelo proprio mentre divoravo, a bocca aperta per l’ammirazione, Il ritorno di Coniglio.

L’articolo è del 1998, e la data è significativa perché Wallace non solo parla per sé, ma intende interpretare i sentimenti negativi verso Updike di un’intera generazione di scrittori «sotto i quarant’anni». È bello essere uno scrittore, ed è bello esserlo quando ancora non si hanno quarant’anni. Ma forse, se fosse ancora vivo, Wallace (che oggi avrebbe esattamente la mia età) sarebbe d’accordo nell’ammettere che, tra i peccati di quella irripetibile stagione della vita, in cui il vento soffia in poppa, c’è il peccato della supponenza. Adesso tocca a te: avrai capito qualcosa di più della vita rispetto a quegli stronzi dei tuoi genitori che passavano la sera a leggere i romanzi di John Updike, no?

È questo è il retroterra psicologico, allegramente confessato da Wallace, della sua operazione critica, cui si aggiungono alcuni pareri di sue amiche, anch’esse scrittrici e under 40, che fanno parte di un repertorio femminista americano francamente imbarazzante (la definizione di Updike come di «un pene con un lessico» tra l’altro vorrebbe essere un insulto, in realtà è una prospettiva molto interessante). Ma qual è il problema? Perché questi ragazzini e queste ragazzine diffidano di gente come John Updike o Philip Roth o Norman Mailer, pur non essendo stupidi e essendo dunque consapevoli del loro valore di scrittori? Perché sono dei «grandi narcisisti» («Gn» li ribattezza Wallace col suo notorio amore per gli acronimi). E non solo sono affetti da «radicale egocentrismo», ma «celebrano tale egocentrismo tanto in se stessi quanto nei loro personaggi».

Pronunciata la sua sbalorditiva sentenza, Wallace si dedica, con la consueta genialità analitica, alla stroncatura di un libro tardo di Updike, oggettivamente riuscito male; ma il suo intento dichiarato è quello di costruire un ritratto a tutto tondo dello scrittore. Il problema di Updike e dei suoi personaggi, afferma Wallace tirando le somme, è che sono loro stessi gli artefici della loro felicità. Il loro errore è persistere «nella convinzione bizzarra e adolescenziale che poter fare sesso con chi si vuole quando si vuole sia una cura contro la disperazione umana». Passi per il peccato di «narcisismo», ma è questo il punto dell’articolo che mi lascia più sbalordito. Cosa c’è di così sbagliato in quella convinzione?

Probabilmente, la disperazione umana non possiede medicine accessibili, ma di sicuro né Wallace né le sue severissime amiche ne possedevano una migliore da contrapporgli. Sarò anch’io uno «stronzo», come dice Wallace, ma tutto sommato quella enunciata nell’articolo di Wallace mi sembra una filosofia di vita tutt’altro che spregevole, e quanto all’«adolescenziale», non ho mai compreso i vantaggi della condizione adulta.

Ma quello che l’autore di Infinite Jest proprio non digerisce (ed è questo a rendere così degno di nota il suo scritto, come sintomo e come ammonimento) non è il sesso in sé, ma il fatto che Updike, non diversamente da Turgenev, per fare un esempio, o da Maugham, o da Jean Giono, esercita sulla natura umana quella inconfondibile prerogativa del classico che è la semplificazione. Tutto sommato, questi eccelsi narratori non sono dei pessimisti, o comunque il loro pessimismo non è un sistema coerente. Semmai, si rifiutano di coprire con inutili fardelli e con complicazioni pretestuose la grettezza umana, perché questa ha un rilievo estetico molto maggiore di qualunque ideologia o fittizia complicazione psicologica. Al suo meglio, questa inclinazione a puntare le carte sull’essere umano così com’è e sulle cose del mondo così come vanno, produce le indimenticabili avventure erotiche e matrimoniali di Coniglio, di sua moglie Janice, e di tutti i comprimari che entrano ed escono dalla loro vita con un magistrale ritmo da commedia.

Cesellata nei minimi dettagli, la città immaginaria di Brewer, in Pennsylvania, è il degno scenario di questa epopea di un eroe della working class, che ha ridotto il suo sogno americano alle dimensioni di un pisolino pomeridiano. Ma non c’è mai pace per Coniglio: proprio perché le sue opinioni sono ridotte al minimo, e vorrebbero coincidere con quelle della maggioranza, il mondo non fa che mandargli segnali inquietanti e indecifrabili, che scuotono il suo vuoto ma alla fin fine lo lasciano intatto. La vita è una lezione, ma non è detto che si impari qualcosa.

A trentasei anni, nel secondo volume della sua saga, troviamo Coniglio alle prese con i tempi che cambiano cantati da Bob Dylan. Siamo nel luglio del 1969, e i telegiornali sono pieni delle notizie sullo sbarco dell’Apollo 11 sulla luna e sulle rivolte dei ghetti neri. Coniglio approva la guerra in Vietnam, diffida dei negri, desidera ardentemente di essere un buon padre e un buon marito. Quando Janice lo lascia per un dipendente della concessionaria di suo padre, si trova in casa una ricca hippy minorenne scappata con la Porsche di papà e un latitante nero, messaggero dell’imminente apocalissi sociale. Updike tratta il suo personaggio come fosse la vittima prescelta di un uccello predatore.

Per pagine e pagine, gli gira intorno dall’alto, descrivendo grandi cerchi di pura comicità; poi, all’improvviso, cala in picchiata artigliandolo con il discorso indiretto libero. Come per un incantesimo, eccoci dentro la testa vuota di Coniglio, a scoprirci d’accordo con lui, anche se non vogliamo. Non perché ci convinca che la guerra in Vietnam è giusta – non ci crede nemmeno lui. Ma perché ogni velleità umana, impigliata nel filtro opaco della sua coscienza, si mostra per quello che è. Gli ideali potranno anche essere validi, ma la loro altitudine è troppo rarefatta per il nostro smarrimento, per la nostra debolezza. E quando Coniglio legge in un opuscolo stile Balck Panthers che esiste qualcosa come «lo splendido mantello del socialismo panafricano», si sente invaso dal sollievo. «Non esistono mantelli del genere», infatti. «Tutte stronzate».

E anche noi, che come Updike ne sappiamo molto di più di Coniglio (il quale non leggerebbe mai un libro di Updike) siamo costretti a dargli ragione, a condividere il sollievo che non possiamo evitare quando un’idea troppo nobile per non suonare come una minaccia o come una punizione si rivela solo un mucchio di parole senza senso.