Il titolo dell’edizione italiana dell’importante libro di Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945 (Einaudi, pp. 580, euro 45) che nella versione originale suona «Wehrmacht e Waffen-SS nella guerra partigiana in Italia», rischia di essere fuorviante, tanto più difronte allo sforzo di precisione concettuale dell’autore, perché non consente al lettore di cogliere l’escalation tra le pur brutali misure espressive di Kasselring e i veri e propri crimini di cui si resero responsabili talune unità militari di stanza in Italia.

Carlo Gentile è certamente con Gerhard Schreiber il miglior conoscitore degli archivi tedeschi relativi al periodo dell’occupazione dell’Italia ed è pertanto più che positivo il fatto che il suo libro sia stato reso accessibile in Italia; la traduzione non facile è generalmente buona, resta solo da lamentare che, come è già accaduto altre volte nel periodo 1943-45 compaiono sulla scena i sindaci delle diverse località citate dall’autore, laddove si trattava dei podestà di marca fascista: un dettaglio al quale il traduttore o quanto meno il competente redattore einaudiano avrebbe dovuto prestare attenzione, se è vero che basta un dettaglio di questa natura per decontestualizzare una intera situazione.

Rappresaglie quotidiane

Nel settantesimo anniversario della Resistenza il libro di Gentile appare come il controcanto della guerra partigiana: non a caso i famigerati ordini di Kasselring risalgono al giugno del 1944, ossia al momento della massima espansione della presenza partigiana, che sottolinea come la periodizzazione dell’occupazione tedesca oltre ché da l’avanzata anglo-americana lungo la penisola vada scandita secondo le tappe imposte dalla minaccia partigiana. È merito di Gentile analizzare come alle spalle del fronte di combattimento lungo il quale si distende la vera e propria zona d’operazione il territorio occupato sia gestito da una molteplicità di soggetti – la Wahrmacht, le forze di polizia, le Waffen-SS e i reparti di terra della Luftwaffe, un vero e proprio esercito che non ha corrispettivi in altri ordinamenti militari a cominciare da quello italiano – che danno luogo a una complicata catena di comando e ripartizione di competenze.

In questa fitta rete di dispositivi e di disposizioni, che non di rado si sovrappongono, Gentile cerca di seguire i percorsi delle diverse unità militari e di attribuire la responsabilità delle loro azioni a singoli protagonisti utilizzando gli organici delle formazioni restituiti dagli archivi ma anche le molte testimonianze emerse dai processi celebrati nei decenni scorsi dalla giustizia tedesca ed in anni più recenti anche dalla magistratura militare italiana, che da una ricerca capillare come questa risulta essere stata più attiva di quanto l’opinione pubblica può avere percepito.

Come è accaduto nel resto dell’Europa occupata, il fenomeno partigiano si è ripercosso anche in Italia sull’occupante in primo luogo con un riflesso psicologico generando un senso di generale insicurezza, la vera e propria arma in più in una contesa che sul terreno puramente militare con le forze della Resistenza era perduta in partenza, laddove di fatto la loro efficacia era amplificata dal fattore della sorpresa e dalla mobilità e imprevedibilità delle mosse dei gruppi alla macchia. È in questo quadro che, come sintetizza Gentile, «a partire dal 1944 le azioni di rappresaglia e la messa a morte di partigiani prigionieri e civili sospetti divennero una realtà quotidiana nell’Italia occupata».

Al di là della descrizione delle operazioni anti partigiane e della violenza diffusa che esse comportavano (si pensi soltanto a un dettaglio che ancor oggi ci fa venire i brividi al solo ricordo: che cosa significavano i rastrellamenti, in cui spesso spiccava la responsabilità dei militari di Salò), Gentile presta particolare attenzione alla natura e alla formazione delle unità che furono impegnate nelle operazioni contro la Resistenza.

Una violenza senza limiti

Le unità che combatterono con continuità in Italia furono relativamente poche, frequenti furono i trasferimenti e le sostituzioni, tenendo conto che prima dello sbarco in Normandia e dopo la ritirata sul fronte orientale, quello italiano era per la Wehrmacht il fronte principale per frenare l’avanzata degli anglo-americani verso il Reich. Sotto questo punto di vista l’autore precisa in quale senso si può considerare che le unità impegnate nella lotta antipartigiana adottassero i metodi della guerra di sterminio condotta nell’Europa orientale. Non si trattava di unità che provenivano direttamente da quel fronte ma del fatto che nella lotta anti partigiana furono adottate le disposizioni draconiane impartite nel 1942 da Hitler per la lotta contro le bande all’est, senza considerare la diversità delle situazioni. Sicuramente nel comportamento brutale delle forze tedesche quelle disposizioni che autorizzavano l’uso della violenza senza limiti alcuni ebbero una loro precisa responsabilità.

Una delle parti più nuove della ricerca di Gentile è l’attenzione che egli presta al tipo di personale di cui si componevano le unità operanti nel teatro italiano. Se è vero che le maggiori e peggiori stragi vanno attribuite alla SS-Panzer Grenadier Division «Reichs-fürer-SS» e alla divisione «Herman-Göring», Gentile non si accontenta di sottolineare il particolare coinvolgimento ideologico degli uomini di queste formazioni, la sua è una indagine al limite antropologica che investe l’intero percorso biografico dei protagonisti delle formazioni interessate.

Come è evidente, si tratta tra l’altro dell’unico metodo che consente di distinguere il comportamento dei diversi soggetti, al di là della considerazione che dopo l’8 settembre del 1943 i soldati tedeschi che combattevano nell’Italia occupata erano sicuramente animati da sentimenti ostili nei confronti della popolazione italiana e non soltanto dal senso di superiorità razziale che è stato sottolineato anche da studiosi tedeschi come Schreiber e Andrae.

La meticolosa ricerca di Gentile, mentre consente di evitare generalizzazioni, non fa sconti di nessun tipo alla realtà di una situazione (quella che a suo tempo Battini e Pezzino designarono come «guerra ai civili») nella quale la popolazione civile era ostaggio della propria impotenza ma anche dell’assenza di qualsiasi istanza protettiva; da questo punto di vista anche la ricerca di Gentile non può che confermare l’inesistenza della Repubblica di Salò o addirittura la presenza dei suoi militi tra gli strumenti della repressione tedesca.

Colpevoli impuniti

Contro ogni determinismo Gentile stabilisce un nesso preciso tra la formazione del personale e l’origine della violenza che fu dispiegata non solo contro partigiani o sospetti tali ma anche contro donne e bambini e non solo sulla scia della ritirata peraltro ininterrotta da Napoli al nord con la parentesi della sosta lungo la linea Gotica.

Le biografie delle formazioni sono sintetizzate in quattro profili personali di protagonisti di crimini: Walter Reder, Max Simon, Anton Galler, Helmut Looss, quest’ultimo tra i responsabili dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema e della Certosa di Farneta. Nel dopoguerra finì la sua carriera come insegnante elementare nella Bundesrepublik. Scrive Gentile: «Loos e Galler sono un esempio degli innumerevoli criminali nazisti usciti illesi dalla guerra e sfuggiti alle sanzioni dell’apparato giudiziario». Uno squarcio sul dopoguerra con il quale Gentile ci ricorda di quanta denegata giustizia sia fatta questa storia. Gli «assassini sono fra noi» fu il titolo precoce di uno dei primi film del dopoguerra nella Rdt: una storia che attende ancora di essere raccontata in tutta la sua atroce verità.