A volte gli epistolari sono scambi di cortesie, raccolte di aneddoti condannati a sbiadire insieme al ricordo dei loro protagonisti. A volte sono vere e proprie officine in cui vediamo nascere un’idea, animata da una feroce necessità di prendere forma. È il caso delle lettere scambiate un secolo fa tra Henri Bergson, nume tutelare della filosofia europea del primo Novecento, pensatore di radicale profondità speculativa, forte di un seguito che a inizio secolo contava seguaci ovunque nel mondo e migliaia di uditori alle sue lezioni Collège de France; e William James, uno dei grandi del pensiero americano, iniziatore col suo maestro Charles S. Peirce della corrente del pragmatismo, voce specificamente statunitense di quella disciplina per tanti versi così europea che è la filosofia, corrente destinata a nutrire in tanti modi l’arte, la poesia, la narrativa d’Oltreoceano.

Quale idea vediamo prendere forma nell’officina di questo epistolario, da qualche settimana disponibile in italiano nella meritoria edizione a cura di Rocco Ronchi, con il titolo Durata reale e flusso di coscienza (traduzione e documentatissima introduzione di Giacomo Foglietta e Paolo Taroni, Raffaello Cortina, pp. 202, euro 23,00)? L’idea di un empirismo radicale. È questo il nocciolo teorico che Ronchi isola nella sua densa e preziosa prefazione all’interno del ricchissimo epistolario tra i due pensatori, facendone il perno di una rilettura che strappa queste pagine alla loro dimensione storiografica per farne un campo di battaglia di assoluta attualità.

L’empirismo è una delle tante tradizioni filosofiche che popolano la storia della filosofia, una tradizione che diventa centrale nella Modernità ma che sotto sembianze differenti è presente in tutta quella storia e forse in ogni filosofia. In questo senso l’empirismo è un’esigenza eterna, ancor più che un insieme di tesi e di argomentazioni circoscrivibili una volta per tutte. È l’esigenza di rimettere al centro l’esperienza e nient’altro che l’esperienza. In greco, appunto, l’empeiria. Ma non appena la filosofia muove un passo in questa direzione, si ritrova in genere in un ginepraio da cui esce con qualche trucco ben poco fedele all’esigenza iniziale. Ne è testimone il nostro senso comune, tutt’altro che ignaro di filosofia, anzi tanto impregnato di una metafisica antica e tenace da lasciarsene ogni volta accecare. Il senso comune, quando deve dire che cos’è la nostra esperienza, com’è che noi abbiamo a che fare con il mondo, com’è che si produce quel misterioso evento che è il senso delle cose, pensa che anzitutto di fronte a noi ci siano le cose, poi che noi percepiamo queste cose che ci fronteggiano, infine che noi diamo significato alle cose percepite ordinandole secondo certi schemi, desideri, leggi, interpretazioni.

Questo resoconto dall’aria così affidabile è in effetti un florilegio di astrazioni. Nessuno di noi guarda mai le cose da fuori, nessuno di noi si pone mai come un soggetto che fronteggia degli oggetti, nessuno di noi conferisce mai significato al mondo in virtù di un qualche potere privilegiato. Quello che Bergson chiamava, con un’espressione destinata a restare celebre, il «dato immediato della coscienza», è di ben altra natura. È la continuità e la compattezza della «durata», parola chiave di tutta l’opera bergsoniana e ritornello incessante di queste lettere indirizzate a James. E quello che James battezzava a sua volta come «flusso di coscienza» era a sua volta qualcosa di molto differente da quel genere di contrapposizioni intellettualiste tra noi e il mondo di cui si nutre il senso comune e la metafisica che l’ha allevato.

Il flusso di cui parlava James nei Saggi sull’empirismo radicale, così come la durata di cui Bergson scriveva nel Saggio sui dati immediati della coscienza, non è mai fatto di pensieri che si annunciano come miei o tuoi, e non implica mai oggetti nettamente definiti, immobilizzati sul piano cartesiano di un Io che riflette sul mondo. È – sintetizza Ronchi efficacemente – «esperienza di niente e di nessuno».

La posta in gioco del carteggio tra i due pensatori sta tutta nella definizione di questa sconcertante scoperta, quella di un’esperienza senza soggetto e senza oggetto, più antica e più persistente dell’esperienza che ha un soggetto e che ha un oggetto. «Più ci rifletto – concludeva Bergson in una lettera a James del 20 luglio 1905 – e più mi persuado che la filosofia dovrà fermarsi a una soluzione vicina a quella che voi indicate. C’è l’esperienza pura, che non è né soggettiva né oggettiva.» Lo stesso pensava James delle posizioni bergsoniane, che all’indomani della lettura dell’Evoluzione creatrice salutava – in una lettera del 13 giugno 1907 – con un’irruenza che il suo più giovane e compassato corrispondente non si sarebbe mai concesso: «O mio caro Bergson, voi siete un mago, e il vostro libro è un prodigio, una vera meraviglia nella storia della filosofia, che se non erro segnerà un’era completamente nuova riguardo a questa materia.»

Il Novecento filosofico non ha tenuto in gran conto l’auspicio di Bergson né l’entusiasmo di James. In quella stessa lettera del 1907 il filosofo americano lasciava cadere un’osservazione che la storia successiva avrebbe purtroppo confermato. Il divenire dell’esperienza pura, notava James, «privo di contenuto, vago come voi dovete giustamente lasciarlo, diventerà proprio per questo un facile bersaglio di cui prendersi gioco.» La storia del Novecento filosofico è la storia della liquidazione del bergsonismo e dell’idea di continuità e compattezza che essa presuppone. Il Novecento coincide anzi con l’assolutizzazione della differenza tra soggetto e oggetto, riaffermata senza sosta in modi diversissimi, a volte irriconoscibili, ma sempre fedeli a quella scelta di campo fondamentale. Heidegger, Lacan, Lévi-Strauss, per citare tre figure chiave all’interno di tre ambiti diversi del pensiero novecentesco, sono pensatori di questa distanza irrevocabile. L’essere è il ritrarsi dell’essere, il desiderio è fatto di mancanza, la commedia delle parentele è il gioco degli slittamenti che si organizzano intorno a una casella immancabilmente vuota. Formule che nella loro ovvia peculiarità nominano una stessa cosa, l’esperienza nella sua incompletezza, nella sua insufficienza, nel suo bisogno di sostegno, nel suo anelito a un complemento sempre rinviato e sempre indisponibile.

Solo oggi, alla fine di questo ciclo durato un secolo, la logica della mancanza si rivela infine come una costruzione parziale, essa stessa mancante di fondamento e bisognosa di un indispensabile presupposto. Di qui l’opportunità, anzi la necessità di riattivare una strada alternativa, mobilitando le risorse di un altro Novecento, di un Novecento minore che Rocco Ronchi ha il merito andare esplorando da anni dentro un progetto teorico sempre più ricco e rigoroso. Una strada che mette al centro non l’esperienza divisa, ripartita in regioni in comunicanti, abitata da una cesura insormontabile, ma l’esperienza assoluta, l’esperienza come un tutto «autosussistente», scrive James, o come una «realtà che basta a se stessa», con le parole di Bergson. Ed è forse la distanza di questo sguardo retrospettivo a consentirci di ricollocare lo sforzo minuzioso dei due filosofi in una cornice più ampia: se l’empirismo radicale vuole farla finita con la presunta insufficienza dell’esperienza, è perché vuole chiudere con la diabolica macchina amministrativa che da sempre si innesta sulla logica della mancanza. Una macchina che rastrella il senso dell’esperienza, lo concentra in un punto sublime, ne fa il fondamento di un’esperienza altrimenti infondata. Poi lo battezza coi nomi in fondo equivalenti di Dio, Soggetto, Linguaggio, Struttura, e dopo averlo reso un bene rarissimo si dedica a centellinarne il capitale, secondo un’economia dell’esperienza che diventa immediatamente un dispositivo di governo delle anime, un confessionale delle loro mancanze, un dispensario di ciò che potrà graziosamente e comunque provvisoriamente completarle. Da questo punto di vista, la posta in gioco odierna della meditazione bergsoniana e jamesiana sull’empirismo sembra essere, ancor più che la costruzione di una nuova metafisica, la definizione dei lineamenti di una diversa politica dell’esperienza.