Tina non vorrebbe mai andare via dal parco. Sa che quel momento significa una sola cosa: separazione. Sua madre e suo fratello andranno da un’altra parte. Lei, invece, raggiungerà il paese senza nome della nonna paterna dove tutte le amiche si divertono a chiederle se, per caso, è una povera orfana. No, che non lo è, eppure a volte preferirebbe quel destino. Almeno, ci sarebbe una spiegazione incontestabile alle dolorose sparizioni, alla schizofrenia evidente della sua famiglia.

In effetti, un orfano c’è nei libri della scrittrice argentina María Teresa Andruetto: è Stefano che, rimasto senza padre a causa della Grande Guerra, s’imbarca alla volta di Buenos Aires e ricomincia la sua vita, avvolto in sogni di futuro e ricordi struggenti. Un personaggio il suo, che molto si avvicina alla verità esistenziale di questa straordinaria autrice (in Italia i suoi romanzi sono pubblicati da Mondadori) che si divide nella scrittura per adulti e per ragazzi, e si destreggia fra vari «generi» seguendo le macro-tracce dei temi che le stanno a cuore: identità, geografie sentimentali, piccola quotidianità che scorre dentro le maglie della macro-storia. Andruetto sarà ospite al Festivaletteratura di Mantova con due appuntamenti: oggi, alle ore 16.30, presso il Teatro Bibiena, in dialogo con Bianca Pitzorno e domani (alle 15,15), al Palazzo del Mago, insieme a Janna Carioli presenterà i personaggi dei suoi libri.

Lei sostiene che la letteratura per ragazzi dovrebbe essere una «letteratura senza aggettivi». Solo così si eviterebbero molti stereotipi. Esiste una differenza tra lo scrivere per adulti e per bambini?
Bisogna tenere ben presente che una cosa è un libro per un lettore molto piccolo, alla prima esperienza, in cui il marchio «infantile» è ancora potente, e altra cosa un libro per adulti in grado di leggere correntemente un romanzo o un racconto per proprio conto. La mia scrittura è uno strumento di conoscenza; è anche un modo per affrontare (l’autore prima, i lettori poi) gli stereotipi e i pregiudizi con cui attraversiamo la vita. Se il percorso di narrazione può considerarsi aderente a una certa verità, lo scrittore potrà strappare le apparenze per raggiungere un luogo più profondo, in cui ogni personaggio – e anche ogni situazione – conquista la sua unicità. L’arte celebra il trionfo del particolare, al posto dell’ufficiale e il generale. Qui, gli stereotipi si prendono una pausa. Ritengo che ci siano ancora troppe differenze tra la scrittura per bambini e quella per «grandi». L’unica che salverei, è una certa sfumatura nell’affabulazione che favorisca un tono amichevole, adatto all’ingresso nella letteratura di un lettore ancora non allenato. Succede purtroppo che molti libri per bambini non siano pensati da artisti, ma «fabbricati» ad hoc per un mercato di lettori o più specificamente per lavorare rapidamente a scuola, raggiungere gli obiettivi e facilitare l’insegnamento dei programmi scolastici. La scuola mi interessa: è il luogo dove siamo passati tutti, che ci accomuna, ma vorrei anche una scuola con insegnanti appassionati di lettura, in cui circolino buoni libri, capaci di formare individui che possano rompere i cliché e puntare verso le zone più intime dell’esistenza.

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Nel romanzo «La bambina, il cuore, la casa» viene proposto un modello di famiglia speciale. I genitori di Tina non vivono insieme, tranne la domenica quando tutti si incontrano. Il linguaggio che li caratterizza è vago, poetico, emozionale mentre tutti i personaggi sono attraversati da una grande malinconia. Pensa che la malinconia possa essere uno strumento per la conoscenza?
Doris Lessing sosteneva che fosse impossibile scrivere senza fare ricorso a un pizzico di malinconia. Per me, riconoscerla (soprattutto se è ereditata) è stato semplice: era qualcosa che faceva parte della mia formazione. Sono figlia e nipote di migranti che hanno lasciato la loro città di origine, e sono cresciuta nella pianura Argentina, un paesaggio dove a dominare è la linea dell’orizzonte. Le piccole cittadine che si trovano nelle pianure argentine sono spesso abitate da persone immigrate che portano il segno della malinconia.

Quando ha vinto il premio Andersen, ha sottolineato la sua provenienza da una famiglia di immigrati italiani. E nei suoi libri la ricerca delle origini è sempre un tema centrale. È così?
Anche se non ho mai scritto vere e proprie autobiografie, la realtà è che si scrive sempre in riferimento a ciò che si è e a ciò che si è vissuto. La mia scrittura va nella direzione di un’esplorazione di diverse identità. Per esempio, la mia condizione di discendente di immigrati, di figlia della pianura, di donna (ho esplorato molto l’universo femminile, i suoi modi di parlare e i sentimenti che lo caratterizzano), le eredità del condizionamento sociale, le origini delle classi e le modalità con cui le persone, a seconda di quel che possiedono o che abbandonano, guardano il mondo intorno a loro, la loro vita e quella degli altri. Sono queste le questioni che da sempre si agitano in me. Non solo provengo da una famiglia immigrata, ma da povera gente (i miei nonni materni erano agricoltori italiani, con miseri mezzi, sbarcati in Argentina alla fine del XIX secolo). E porto in me i traumi della guerra, dato che mio padre si trasferì in Argentina dopo il secondo conflitto mondiale. Entrambi – lo sradicamento e la povertà, in alcuni momenti anche la mia stessa carenza economica – così come la dittatura argentina, che ho vissuto tra i miei 21 e 28 anni, appartengono alla mia sensibilità. Anche i modi di essere e di fare delle donne di famiglia mi hanno influenzata. Nella mia genealogia, posso contare su figure femminili forti, in grado di farsi strada con tutte le differenze dei loro casi: la madre di mio padre era sarta in un villaggio del Piemonte, quella di mia madre faceva materassi in un paese argentino, la bisnonna materna custodiva un passaggio a livello e poi è diventata tessitrice di reti da pesca.

Lei ha scelto di vivere in un piccolo villaggio, non a Buenos Aires…
Sì, vivo in una città molto piccola tra le montagne, a 40 chilometri da Cordoba, la seconda città più grande dell’Argentina, una città che vanta una grande tradizione universitaria, e che si trova a quasi 800 chilometri da Buenos Aires. Ho sempre vissuto nella provincia di Cordoba, in alcuni periodi anche nella capitale stessa e in altri, in cittadine e villaggi. È stata una scelta sia professionale che privata e famigliare. Non volevo costruire la mia vita nascondendomi dietro una «carriera» da scrittrice, ma casomai scrivere trovandomi «nel bel mezzo dell’esistenza stessa», alimentata dalle sue gioie e dolori.

Nei suoi libri — pure in «Los Manchados», romanzo per adulti – la memoria è vissuta come una cosa privata (l’universo femminile) ma anche collettiva (la dittatura)…
Molti ricordi hanno a che fare con la costruzione del soggetto stesso. Le memorie degli individui, personali e sociali si fondono, si mescolano e finiscono per contagiarsi a vicenda. Mi interessa particolarmente il modo in cui il privato e il sociale si incontrano (guerre, povertà, circostanze politiche, catastrofi, tempi di prosperità sociale), come vengono modificate (alterate o migliorate) le vite personali dei singoli e soprattutto come le donne, dai loro luoghi intimi, riescano a osservare il mondo che le circonda. Mi piace immaginare che sono in grado di condurre o dismettere la propria vita per ascoltare il dolore degli altri.

Come descriverebbe lo stato di salute dell’editoria in Argentina?
Negli ultimi anni si è registrata una notevole crescita e una forte presenza di letteratura nelle scuole, perché lo Stato ha acquistato diversi milioni di copie di libri da distribuire in tutte le scuole pubbliche del paese. C’è stato anche un significativo aumento di fondi destinati alla formazione di insegnanti e per la lettura, tra i molti altri programmi di sviluppo culturale ed educativo. Questa tendenza ha rivitalizzato il mondo dell’editoria. Oltre ai grandi gruppi editoriali sono nati tanti piccoli editori, a volte si tratta di imprese di famiglia che pubblicano libri di ottima qualità, sia nei contenuti che nella loro fattura. Purtroppo alcuni di questi programmi di sviluppo culturale – incentivi per attori, teatri, progetti socio-culturali, orchestre giovanili, piani educativi in grado di affiancare chi ha abbandonato la scuola per spingerlo a terminare gli studi – sono a rischio. Ma la società argentina sa rivendicare i propri diritti e quindi assistiamo a marce e manifestazioni che protestano contro la perdita delle risorse.

Come giudica i  cambiamenti portati dall’elezione di Macri nel suo paese?
Finora, questi otto mesi del governo Macri hanno avuto un segno negativo: sono stati dismessi molti progetti sociali, c’è un numero cospicuo di persone che ha perso il lavoro, la crescita dell’inflazione, l’apertura ai prodotti d’importazione che distrugge l’industria nazionale. Se il desiderio comune è quello di vivere in una società più giusta, devo convenire che questo governo sta procurando una grande sofferenza ai settori più bisognosi e anche alla classe media. Si torna a essere un paese di esportazione delle imprese agricole e finanziarie, a scapito dello sviluppo di un’industria nazionale e della crescita dei settori di consumo e di benessere.

 

SCHEDA

Nata a Arroyo Cabral, il 26 gennaio 1954, María Teresa Andruetto è una scrittrice argentina, autrice di romanzi per adulti, per ragazzi, raccolte di poesie, pièces teatrali. Discendente di antenati piemontesi, vive in provincia di Cordoba, con il marito e le sue due figlie. Ha lavorato come insegnante sia nella scuola primaria che in quella secondaria. Nel 2012 ha ricevuto il premio Hans Christian Andersen, conferito dall’Ibby (Organizzazione Internazionale del Libro giovanile). Andruetto è anche un’acuta osservatrice della scena culturale del suo paese e dedica una particolare attenzione alla narrativa delle scrittrici. È moderatrice del blog, http://www.narradorasargentinas.blogspot.com/ ed è codirettrice di una collana che raccoglie le opere delle narratrici del suo paese nell’Editorial Universitaria Eduvim. Fra i suoi libri più importanti, c’è Lengua Madre (2010), che riassume perfettamente le tematiche affrontate da Andruetto nella sua vasta produzione. Racconta la complessa storia di una famiglia argentina attraverso gli anni ’70 fino ad arrivare ai giorni nostri, attraverso il ritorno di Julieta, dottoranda di 30 anni, residente a Monaco, alla sua città natale, Trelew, piccolo insediamento della Patagonia. In Los Manchados (2015, Mondadori, Random House) riappare in scena Julieta e con lei, la storia dell’Argentina, dal peronismo fino alla fine della dittatura.