Il neoliberalismo contemporaneo è un grande consumatore di libertà, ricordava Michel Foucault durante quei corsi che, in presa diretta, provavano a capire cosa stava accadendo sul finire degli anni Settanta, quando la crisi del welfare state cominciava ad essere gestita in modo aggressivo da nuovi protagonisti. Consumare libertà significa evidentemente nutrirsene per il proprio funzionamento: ma, allo stesso tempo, controllarla e governarla continuamente, lasciandone ben poca. Nel suo recente «Senza proprietà non c’è libertà» (Falso!), uscito per la collana Idòla di Laterza (pp. 78, euro 9), Ugo Mattei sceglie come obiettivo polemico il dispositivo principale attraverso cui il liberalismo ha reso «consumabile» la libertà: la costruzione storica di un nesso, tanto stretto quanto menzognero, tra libertà e proprietà. Mattei, coi toni martellanti del pamphlet, mostra come, al contrario, la proprietà sia sempre servita a rimettere ordine contro le tentazioni di una libertà eccedente e a distruggere le possibilità di una libertà in comune.
La genesi della sovrapposizione tra libertà e proprietà è facilmente rintracciabile nel costituzionalismo liberale «classico». Lo proclamerà sir William Blackstone a chiare lettere nel tardo Settecento: la difesa della libertà coincide senza scarti con la difesa della proprietà privata. Senza proprietà, che è «dominio dispotico» sulle cose, si cadrebbe inevitabilmente sotto il dominio degli altri.

La legge del potere

Era stato John Locke, un secolo prima, a tracciare le linee fondamentali di questo modello. Prima mossa: la proprietà è la vera garanzia della libertà, da cui discende che il vero soggetto libero è quello proprietario. Attorno alla proprietà si costruisce, anzi, la stessa struttura del soggetto. Il soggetto giuridico è libero in quanto proprietario della propria persona e, prima ancora, del proprio lavoro. In secondo luogo, il sovrano è il garante della libertà/proprietà. Lo Stato è uno strumento finalizzato alla tutela del soggetto proprietario: di qui l’asimmetria storica, fortemente sottolineata da Mattei, tra la forte difesa della proprietà privata nei confronti del pubblico e l’assenza di ogni rimedio quando invece è il pubblico stesso a voler privatizzare. Terzo e fondamentale momento: prima ancora della distinzione tra pubblico e privato, tra sovrano e soggetto, interviene un atto di espropriazione, di rottura del comune, costitutivo di quella stessa distinzione. In altri termini: proprietà e sovranità, lungi dall’opporsi l’una all’altra, sono due aspetti della stessa forza appropriativa, della marxiana accumulazione originaria.
Sono i due aspetti, perfettamente simmetrici, della proprietà privante, di cui Mattei segue le tracce: il primo è quello appropriativo, il secondo la capacità di produrre e forgiare il soggetto proprietario. Al di là dei modi attraverso i quali il diritto ha sempre provato a normativizzare e ad addolcire la sua violenza, l’origine della proprietà richiama comunque il saccheggio, il premio promesso ai soldati per la conquista. Mattei presenta alcuni fotogrammi molto vividi di quella che definisce una tassonomia genocida: dalla proprietà fondiaria individuale inglese, la free tenure significativamente fatta risalire a Guglielmo il Conquistatore, alla conquista delle Americhe, quando, ricorda Mattei, sulla Santa Maria venne imbarcato un notaio, pronto a certificare l’avvenuto acquisto a titolo originario; sino alla scena delle enclosures, quando Locke, segretario personale di un grande proprietario terriero, santifica giuridicamente l’appropriazione delle terre.

Dopo il saccheggio

In modo molto appassionato, Mattei ci ricorda anche come tutta questa storia sia stata cancellata dall’insegnamento universitario mainstream del diritto, complice la professionalizzazione spinta delle facoltà di giurisprudenza.
Accanto all’origine appropriativa e violenta, la proprietà privante però ha anche l’aspetto, apparentemente più soft, della costruzione del soggetto proprietario: è produzione di soggettività, non solo saccheggio e conquista. Ma anche questa seconda faccia mostra quanto sia fallace il binomio proprietà/libertà: il rapporto con la libertà è molto problematico, infatti, non solo per gli esclusi e gli spossessati, ma persino per i proprietari stessi. La proprietà produce assoggettamento per lo stesso proprietario: Mattei ricorda a buona ragione come la promessa del tutti proprietari della propria casa abbia funzionato, all’inizio della crisi, come potente spinta all’indebitamento. Anche qui, non c’è nessun «pubblico» più o meno «buono» che abbia funzionato da protezione contro i meccanismi di spossessamento: semmai invece è proprio «la simbiosi mutualistica tra Stato e proprietà privata», scrive Mattei, a riprodurne continuamente le condizioni.
Oggi che la proprietà si presenta con il suo volto estrattivo al di fuori di qualsiasi mediazione welfaristica, il confronto si sposta necessariamente sul terreno politico costituente: è evidente, e Mattei lo fa emergere in pieno, che riaprire il discorso dei beni comuni, degli usi, della riappropriazione, è possibile solo attraverso istituzioni con capacità generative che si pongano oltre quella polarità pubblico/privato che ha segnato la storia del costituzionalismo. Terreno costituente, ci sembra, non può qui che significare un processo di rottura di quella polarità, e non semplicemente uno spazio «terzo», più o meno equidistante da pubblico e privato. Mattei parla a questo proposito di una proprietà generativa, sottolineando però con forza che si tratta dell’opposto della proprietà quale la conosciamo: da parte nostra, lasceremmo cadere senza nessun rimpianto anche il nome, se non altro per amor di pulizia concettuale. Ma, al di là delle questioni terminologiche, l’importante ora è che la critica della proprietà riesca a porsi all’altezza delle trasformazioni radicali della proprietà stessa.

Le questioni da affrontare

La forza estrattiva della proprietà ha oggi dimensioni quantitative, ma soprattutto qualitative e intensive, nuove: è oggi diventata estrazione di valore dall’intera società, attraverso molteplici e intricate forme di sfruttamento del lavoro e forme di spossessamento delle risorse, cognitive e materiali. In questo quadro, un radicamento reale sul terreno costituente richiede che si affronti direttamente il problema dell’organizzazione politica di queste lotte e della loro connessione più ampia con le lotte del lavoro vivo in tutte le sue forme. Solo se i movimenti dei beni comuni attraverseranno in pieno, come già hanno a tratti mostrato di saper fare, le questioni generali della cooperazione sociale nella metropoli, della crisi del welfare, del reddito, potremo evitare il rischio che la forza antiproprietaria dei beni comuni sia riassorbita in un pacificato commons management, e che l’«oltre il pubblico e il privato» sia catturato dagli infiniti dispositivi di governo pubblico/privato che garantiscono il funzionamento proprio di quel nuovo estrattivismo che intendiamo combattere.