Venezia ritrova per la quarta volta una delle sue opere simbolo, quel Rake’s Progress di Stravinskij le cui memorie del 1951 non sono svanite col rogo del teatro. E brucia gli occhi la regia di Damiano Michieletto, a partire dal sipario di lustrini da rivista: il racconto di un mondo di adolescenti beatamente perduti in feste a bordo piscina, le cui mattonelle si sporcano quadro dopo quadro per diventare alla fine un manicomio che sembra stanza della morte da stadio cileno.

Una lettura del Rake’s Progress, che nonostante i colori e la infantile baldoria imperante, è spietata, persino desolante. A questo mira l’ambientazione contemporanea?

È inevitabile che, utilizzando un’estetica contemporanea il risultato sia più graffiante. Forse proprio per questo io evito i filtri storici. In questo modo, anche durante le prove possono emergere interrelazioni e tensioni che non sono protette da nessuna maschera. Si affonda maggiormente nel dramma, in generale è il motivo per cui prediligo le dinamiche dell’oggi.

Fa spogliare e rivestire continuamente i personaggi in scena per togliere ogni residuo di maschera, per lasciarli nudi?

Non direi. Sono giochi che fanno parte dell’alchimia del teatro. Si cambia a vista un costume ( di Carla Teti) come anche una scena (di Paolo Fantin) o le luci, e in questo spettacolo accadono tutte e tre le cose. Poi Nick Shadow qui cambia tante identità, sempre giocando con il pubblico, spogliandosi, facendo smorfie, linguacce. C’è poi la volontà di restituire immediatezza all’azione, quasi che le invenzioni nascessero durante lo spettacolo, per caso, d’improvviso.

A tratti sembra di riconoscere delle immagini cinematografiche, per esempio da Reality di Matteo Garrone…

È un caso, forse coincidenze di visione e di poetica. Reality purtroppo non l’ho visto, a parte qualche fotogramma, poche immagini.

Come ha lavorato con loro?

Una ripresa realizzata in modo serio è una nuova occasione per migliorare lo spettacolo: ho cambiato alcuni aspetti, li ho resi più efficaci. Sono grato alla Fenice per avermi messo a disposizione un cast di cantanti attori bravissimi, con cui in parte avevo lavorato anche per la Trilogia Mozart/Da Ponte. C’è stata la doppia emozione di una piena fiducia e di un’aspettativa nei miei confronti da parte e loro. Si aspettavano uno spettacolo intenso. E non sarebbe tale se il coro non si fosse messo in gioco con generosità. Se coinvolti veramente in un progetto anche per gli artisti del coro lo spettacolo diventa una sfida da affrontare con entusiasmo. Un meccanismo virtuoso, se vogliamo, in cui tutti accettano di mettersi alla prova. Ecco cosa sono per me le prove: mettersi alla prova, ogni giorno.

Di quanto tempo ha bisogno per lavorare su una nuova regia?

Il progetto deve essere pronto un anno prima, quindi la mente comincia a lavorarci due anni prima, circa. Ora che ho più impegni mi accorgo quanto per il regista la concentrazione sia fondamentale, non si può passare da un progetto all’altro con la stessa facilità di un direttore d’orchestra.

Ha mai abbandonato un progetto perché non riusciva a trovarne la chiave?

È buffo, stavo per lasciare La Gazza Ladra (lo spettacolo che gli ha dato la notorietà al ROF nel 2007, nda) Chiamai il sovrintendente Mariotti, al Rof, gli dissi che era un lavoro troppo complesso per me, non mi fidavo abbastanza delle mie idee. Forse per il primo lavoro importante volevo andare oltre una normale regia. Mariotti mi rassicurò e alla fine andò bene, però stavo davvero per mollare.