«C’era una volta una ragazza che cantava e ballava sul rimorchio di un camion. C’era, c’era una volta una ragazza….che viveva sola…in una distesa di lava…in una foresta…vicino al mare…in una capanna fatta di materiali naturali». Così, accompagnati dalle parole del poeta, romanziere e paroliere Sjon, recitate con meraviglia infantile dalla voce di Björk, si entra nella mostra che il Museum of Modern Art di New York dedica (a partire da domenica) alla pop artista islandese. Si tratta, secondo il curatore Klaus Biesenbach, di «una mostra trasformativa per questo museo, e che trasformerà il modo in cui i musei in generale trattano la musica». Biesenbach, che è anche il direttore di PS 1 era già stato responsabile delle mega mostra su Marina Abramovic, The Artist Is Present.

Questa Mid-career retrospective with new commissioned piece for moma è un’esperienza altrettanto immersiva, anche se di segno opposto. Laddove Abramovic aveva praticamente «invaso» il museo, l’omaggio a Björk è più nascosto, segreto, in gran parte contenuto in una scatola (a sua volta fatto di scatole coloratissime comunicanti tra di loro), e articolato su tre livelli, tra cui un mezzanino creato appositamente per l’occasione. Mentre Abramovic, ogni giorno, per tutta la durata dell’esposizione, si confrontava letteralmente con i visitatori, seduta a un tavolino nell’atrio principale del museo, alla preview stampa di martedì, fedele alla sua leggendaria timidezza, l’artista islandese è apparsa solo un attimo, nel buio quasi totale, a presentare la sua nuova installazione, Black Lake, abbigliata in quello che, almeno a giudicare dalla silhouette stagliata sullo schermo, sembrava un cactus nero.

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Nerissima è anche la caverna di lava in cui si apre Black Lake, diretto da Andrew Thomas Huang sulle note dell’omonima canzone nell’album, Vulnicura, che Björk aveva descritto il gennaio scorso a «Les Inrockuptibles» come «un disco più tradizionale di Biophilia, che parla di quello che succede a una persona alla fine di una relazione (il riferimento è al suo rapporto d’amore con l’artista Matthew Barney, ndr). Racconta i dialoghi che uno può avere nella sua testa e nel cuore, il processo di guarigione».

Dolore, morte, rinascita, in una progressione esemplificata anche nei motivi del paesaggio islandese che la circonda (dal buio della grotta alla superficie, dalla pioggia a una schiarita) e dai costumi della stilista Iris Van Herpen (già collaboratrice in Biophilia) , sono infatti i temi dell’installazione che il MoMa ha commissionato per la mostra, e che ne costituisce il punto d’arrivo finale.

Il percorso per arrivarci è organizzato in modo biografico («è la storia della sua vita» ti dice l’impiegato del museo all’inizio del viaggio), come esemplificato nella progressione dei dischi di Björk, e sottolineando l’identità dei rispettivi personaggi che lei aveva immaginato/costruito per ognuno di essi e che lei stessa incarna in una serie di «manichini» derivati da stampe 3D che riproducono il suo volto e il corpo. Dietro all’approccio lineare, relativamente semplice, sta un’architettura complessa che punta sulla qualità collaborativa, multimediale, del lavoro di Björk, qualità che, per Biesenbach, ne fa «un’artista assolutamente paradigmatica degli anni ’90, come Douglas Gordon e Pipilotti Rist».

La sua collaborazione con stilisti (Alexander McQueen, Marjan Pejoski, Walter van Beirendonck, van Herpen…), registi (Spike Jonze, Michel Gondry, Chris Cunningham, Paul White….), artisti (Matthew Barney, Bernhard Willhelm, Icelandic Love Corporation…) e con scrittori come Sjon, sono quello che ne fa il soggetto ideale per una mostra come questa –in cui si fondono naturalmente i temi e le tensioni opposte che caratterizzano la sua opera – natura primordiale e tecnologia, il senso di una tristezza antica e un’euforia quasi da bambina, evanescenza e matericità, la fragilità del tulle o di una piuma e la forza dell’acciaio….

Ma, ha aggiunto il curatore (che aveva già portato a PS 1 un’installazione da Biophilia), Björk si ritiene prima di tutto una musicista e «la condizione che ha posto per accettare il nostro progetto era che la musica fosse un’esperienza autentica». Il collante che rende possibile l’autenticità di quell’esperienza, all’interno di un percorso espositivo in cui sono presentati i più noti costumi di Björk (il vestito da cigno con cui è andata agli Oscar, quello a campana, quello «robot» del bellissimo All Is Full Of Love….quello a onde blu di Biophilia), le sue acconciature, ma anche le pagine dei suoi diari di appunti, è un‘application creata per l’occasione.

Si tratta di un’audioguida di cui lo spettatore viene dotato all’ingresso e che, accompagnandolo nell’esposizione, stanza per stanza, diventa una colonna sonora indissolubile da quello che si sta guardando e una guida psicoemotiva del tutto –«rallenta», «concentrati», «non aver paura. se ti perdi basta che tocchi il cuore»..sussurra dolcemente una voce maschile che a tratti si sovrappone ai racconti poetici di Sjon (spesso paroliere per Björk ed qui autore del testo portante) e alle canzoni. Si tratta di un accompagnamento singolarmente «vivo», intimo, l’opposto della sensazione scorporata, impersonale, a cui fa pensare la tipica audioguida da museo. Alla fine del viaggio, e prima di entrare nella scatola/stanza riservata a Black Lake, in un cubo a parte è allestita una saletta di proiezione in cui sono proiettati 30 video.

Basterebbe questa selezione di mini film musicali – sempre creativissimi, organizzati anche qui cronologicamente, senza fronzoli – per meritarle un omaggio di queste proporzioni.