Gabriele Frasca, docente di Letterature comparate all’Università di Salerno, è poeta, narratore, critico letterario, e uno tra i più accorti e sofisticati traduttori di Samuel Beckett (tra le sue ultime opere, Joyicity. Joyce con McLuhan e Lacan del 2013, e Lo spopolatoio. Beckett con Dante e Cantor, del 2014).
Alla terza edizione del festival «Salerno Letteratura», Frasca è in procinto di chiudere un ciclo di eventi joyciani, inaugurato il 16 giugno scorso dal primo Bloomsday campano. È appena uscita, presso uno dei suoi editori storici, Luca Sossella, la seconda edizione del suo fortunato La letteratura nel reticolo medievale (pp. 451, euro 18), noto al pubblico per lo più grazie al sottotitolo, La lettera che muore. A lui chiediamo conto di questa nuova edizione, che rispetto alla precedente, pubblicata nel 2005, appare quasi come una riscrittura, con tre capitoli aggiunti ex novo, interventi e modifiche virtualmente in ogni pagina del testo.

Domanda d’obbligo: perché riscrivere «La lettera che muore»? L’opera pare invecchiata bene. Sono forse cambiati i suoi ricettori? La distanza tecnologica tra il 2005 e oggi li ha resi più bisognosi di complessità, o magari di semplicità?
Questo saggio ha una storia lunga. Ho cominciato a scriverlo nel 1997, con un titolo a suo modo benjaminiano: La letteratura al tramonto dell’età della carta. Poi non ha più smesso di scriversi, persino una volta apparso nella sua forma del 2005. Anche per questa edizione ho dovuto eliminare a malincuore capitoli già abbozzati, come quello sulla pagina a specchio degli Essais di Montaigne. La «filologia dei mezzi», stretta com’è ai panni dell’arte del discorso, è una metodologia esplicitamente vichiana che mi appassiona. E gli autori che hanno riflettuto sulle macchine che consentivano alle proprie opere di viaggiare, rispetto a quelli che si sono limitati a farsene cullare, non sono pochi. E fra i più significativi.

I mutamenti tecnologici minano le certezze della civiltà tipografica. Ma può essere un bene, o un male. Come i social media, che possono creare «legioni di imbecilli». Lei è pessimista come Eco a riguardo?
Come sa ogni lettore di Flaubert, la cultura tipografica ha creato altrettante «legioni d’imbecilli». E che dire delle masse intontite dalla cultura orale, come le descrive nella Repubblica Platone. Senza dimenticare i lettori rincretiniti dai troppi rotoli di papiro contro cui Seneca metteva in guardia Lucilio. Non c’è epoca che non si lamenti dei propri media, e che non si spaventi quando ne arriva uno del tutto nuovo. Quando si diffuse la stampa, tanti umanisti torsero il naso. Il libro manoscritto fra il XIV e il XV secolo aveva raggiunto un livello di perfezione massimo. Rispetto a quest’ultimo, almeno per quella élite raffinata, il prodotto della stampa non poteva che risultare spiacevole all’occhio e volgare. Furono in molti, con l’avvento della più economica «ars artificialiter scribendi» a levare al cielo le loro urla di raccapriccio. Era, dicevano, la fine della civiltà del libro: sappiamo invece che ne fu il rilancio, e un nuovo inizio. E proprio perché arruolò fra i lettori, e persino fra gli autori, «legioni d’imbecilli», magari a malapena alfabetizzati. La questione, però, è persino più sottile, in bilico com’è fra privilegi da difendere e mercato da guadagnare. Se si vuole è il rovello stesso dell’arte, che dalle «legioni d’imbecilli» variamente interconnessi che siamo tutti, si propone d’intercettare chi comprenda, magari trasalendo, il senso della propria stupidità condizionata.
La letteratura poi, da quando è nata in Inghilterra nel XVIII secolo, ha chiesto sempre a chi se n’è fatto carico di mettere in atto le sue scelte: potevi seguire i presunti gusti di un pubblico supposto «imbecille», come gli scrittori direttamente stipendiati dagli editori di Grub Street, o provare a conquistarne uno del tutto nuovo, come fece ancora caldo di pulpito il reverendo Sterne. Insomma: se sei James Joyce, per citare un autore caro a Eco, ti puoi scegliere i tuoi lettori, a costo di rinunciare alla fama fra i tuoi contemporanei, e limitarti a vendere, se va bene, un migliaio di copie delle tue opere. Ma se sei un autore di bestseller, devi puntare a lettori di bocca buona.

Sulla scorta dell’idea di cultura come memoria non trasmessa geneticamente, come si colloca quella virtuale registrata nel gigantesco «akasic record» che è internet, in grado con il podcast di fissare la velocità della radio che aveva accelerato il moto della «parola inarrestabile eppure inconsistente»? È un futuro che si chiama passato?
L’ultimo McLuhan, non a caso grande lettore di Vico, sulla questione mi pare sia stato di una chiarezza esemplare. Non c’è medium innovativo che, per scalzare il precedente, non ricorra alle modalità di un medium più antico, persino arcaico. Questo però non vuol dire un ritorno al passato, anzi. Si tratta sempre di un’apertura al futuro. È senz’altro vero che con l’avvento dei media elettrici si assiste, col tramonto della civiltà tipografica, a una sorta di ritorno della cultura orale, e persino gestuale, come voleva padre Jousse.
Ma non è la fine della scrittura, per nulla. L’oralità, e prim’ancora la gestualità «mimodrammatica», prevedevano una sorta d’incorporazione permanente del messaggio da tramandare. Il maestro doveva essere letteralmente mangiato dall’allievo, come ancora ci ricorda il rito eucaristico. «Fate questo in memoria di me». La scrittura ha liberato il corpo dalla necessità d’incistare il messaggio altrui, dal momento che lo preserva altrove e lo rende compulsabile. Un’oralità, o una gestualità, registrata, e dunque replicabile ogni volta che si vuole, non ha bisogno di essere incorporata, perché in verità è una forma di scrittura. La voce registrata, il gesto ripreso dalla camera, scrivono, e in modo pressoché indelebile. È la questione delle questioni nella rete, dove tutto permane, persino contro i rimorsi di chi vorrebbe rivendicare il «diritto all’oblio».

Uno dei fulcri del suo libro è «Finnegans Wake», opera molto poco letta proprio perché non la si può leggere nel senso classico. Un libro orale che guarda al futuro, ma anche alle origini del letterario. Qual è il senso di questa sua oralità oggi?
Lei ha citato non a caso un altro lettore di Giambattista Vico, e fra i più intelligenti. L’Italia con Joyce ha perso una grande occasione. Non aver fatto i conti con uno degli autori che forse più di tutti si è sentito a suo modo «italiano», cioè figlio diretto di Dante, è più di un errore. È quasi un suicidio culturale. Il Finnegans Wake sprona come la Commedia il lettore a intraprendere un viaggio a fior di labbra, e con lo stesso fine di salvezza, se mai fra una risata e l’altra. Se n’era accorto Contini. Sfortunatamente non ha fatto scuola.
Nel penultimo capitolo viene posta la questione cardine: la fine e il fine della letteratura. Alla luce della diffusione ancora incerta dell’ebook da noi, questo gap può riflettere una sostanziale differenza tra la vecchia nobile Europa e altre parti del mondo più a contatto con l’oralità o solo meno spaventate dai mutamenti tecnologici?
Una legge inderogabile che regola ogni prodotto di mercato, non solo i mezzi di diffusione della cultura, c’insegna che quando subentra un prodotto più economico e più resistente, è ben difficile che quello vecchio più perituro e costoso non finisca in soffitta. L’avanzata dell’e-book non potrà essere arrestata, che piaccia o meno. Il che non vorrà dire che non esisteranno più libri cartacei. Ce ne saranno ancora, in tirature limitate, per i collezionisti. Come c’è ancora il vinile per chi ama il vecchio disco. Solo che quando si compra un vinile, beh, lo s’infila velocemente nella propria collezione… e poi, per non rovinarlo, si ascoltano i brani in mp3.