A ispirare l’ultimo lavoro della filosofa femminista Judith Butler – Notes toward a Performative Theory of Assembly (Harvard University Press, 2015) – sono i movimenti sociali che hanno attraversato le strade e le piazze del globo negli ultimi dieci anni. Le grandi manifestazioni dei migranti latinos negli Stati Uniti, Occupy Wall Street, gli Indignados, le «Primavere arabe» e Black Lives Matter pongono per lei domande fondamentali sulla democrazia. Questa non è semplicemente intesa come una forma di governo, ma è pensata nel campo di tensione tra la sovranità popolare e quella rappresentativa, tra le dinamiche del riconoscimento e una battaglia etica per estendere i confini della «riconoscibilità».

I protagonisti di questa battaglia sono soggetti «precari» che non godono della protezione del diritto né di sostegno economico e sociale da parte delle istituzioni e che, nonostante tutto, non sono ridotti alla paralisi politica della «nuda vita». Al contrario il loro assembramento nello spazio pubblico costituisce per Butler un momento capace di trasformare lo stato di cose esistente ponendo in questione le norme e le gerarchie che lo costituiscono. Butler stabilisce così un nesso tra la lotta contro la precarietà e la democrazia che sembra rispondere all’esigenza di pensare una politica di massa al di là dei confini dello Stato. Eppure, a ben guardare, la sua performance è ancora legata a una logica tutta moderna, che fa dello Stato l’autorità incaricata di sancire ogni trasformazione e dà per scontata la sua capacità di garantire una continua inclusione, persino all’interno delle coordinate globali che hanno drasticamente modificato il suo spazio d’azione.

Dentro e fuori la legge

La teoria approssimata in queste pagine attinge a quella della performatività di genere che attraversa la vasta produzione di Butler. Se il genere è l’effetto di una combinazione di poteri discorsivi e istituzionali che si impongono normativamente attraverso la ripetizione nel tempo da parte dei soggetti, l’iterazione di comportamenti difformi rispetto alle norme di genere è capace di alterarne la presa coercitiva. La performance è quel momento paradossale in cui l’atto di riproduzione di una norma è al contempo una deviazione dalla norma e una forma di resistenza. In quanto è sempre una negoziazione di potere, la riproduzione del genere esprime una tensione a estendere i confini dell’umano creando le condizioni affinché anche coloro che non sono conformi alla norma possano essere riconoscibili e apparire liberamente negli spazi pubblici e privati. Proprio perché investe le condizioni della «riconoscibilità» dei soggetti, la performatività di genere è legata alla precarietà.

Questa è la situazione di quanti sono esposti alla fame o alla morte violenta, alla violenza dello Stato o a quella che il diritto non può evitare o correggere. La precarietà non è semplicemente una condizione di lavoro, ma può riguardare anche il lavoro. Essa non coincide con la vulnerabilità – che indica la dipendenza costitutiva, per quanto storicamente definita, del soggetto dagli altri e dall’ambiente – ma è «indotta politicamente», è l’effetto di una distribuzione iniqua delle condizioni sociali, economiche e politiche necessarie a esistere e persistere. Come la performance di genere riformula o rompe le condizioni dell’«apparizione», così coloro che non sono riconosciuti perché non sono contemplati come soggetti all’interno di una specifica concezione normativa dell’umano diventano riconoscibili l’uno per l’altra incontrandosi nell’assemblea.

Le norme che regolano l’apparizione nella sfera pubblica e la loro rottura – come quella praticata dai migranti messicani che a milioni nel 2006 hanno manifestato negli Stati Uniti, sfidando l’invisibilità imposta loro dallo status di clandestini – diventano quindi il centro della riflessione di Butler: l’apparizione diviene performance nel momento in cui nessuna legge la tutela e la garantisce.
In questo quadro, lo spazio pubblico è per Butler il significante delle norme e gerarchie che organizzano la vita. Ciò che rileva in questo spazio non è tanto la parola, ovvero le rivendicazioni esplicitamente avanzate dalla collettività che scende in strada, ma il fatto che una pluralità di corpi si riunisca alla luce di una comune condizione di precarietà per contestarla.

L’organizzazione della «persistenza» dei corpi nello spazio pubblico – esemplificata dalla costruzione di dormitori e cucine da campo che hanno permesso ai manifestanti di rimanere in piazza Tarhir o a disoccupati e sfrattati di partecipare alle mobilitazioni degli Indignados – è una contestazione performativa del confine tra pubblico e privato, della divisione sessuale del lavoro, così come un’esposizione delle condizioni economiche e sociali che sono necessarie alla vita, che non sono riconosciute dalle istituzioni e che dovrebbero esserlo. Affermare che vi sia politica prima della parola significa criticare l’idea – che Butler discute attraverso Hannah Arendt – che la sfera della libertà cominci là dove termina quella della necessità.

Questa concezione non solo nasconde il lavoro riproduttivo, connotato sessualmente e razzialmente, necessario per consentire ad alcuni di liberarsi dal bisogno e prendere parola, ma anche disconosce la centralità del corpo come nucleo politico. Le rivendicazioni fatte in nome del corpo (protezione dalla violenza, servizi, nutrimento, mobilità, libertà di espressione) sono invece il presupposto e il segno di una prospettiva etica che pensa ogni soggetto nella sua relazione vitale e costitutiva con gli altri, con l’ambiente e con le tecnologie. La vulnerabilità, in questo senso, non è il nome di un’insuperabile debolezza, non è un principio di vittimizzazione, non coincide con l’inerzia della «nuda vita». Essa al contrario è il principio etico che consente un’azione collettiva che riconosce la dipendenza di ciascuno dagli altri e dal mondo e di contestare la precarietà rivendicando l’uguaglianza necessaria affinché ciascuno viva una vita buona.

La politica dei corpi prima della politica della parola permette a Butler di proporre un’idea dell’obbligazione etica fondata sulla precarietà. Questa è la condizione che ci lega oggettivamente a coloro con cui siamo riuniti in assemblea – che neppure conosciamo o con i quali potremmo anche essere in conflitto – o a tutti quelli che con noi abitano la terra, ma che non abbiamo scelto. L’obbligazione etica deriva dal riconoscimento dell’eterogeneità della popolazione terrestre con cui siamo in una relazione costitutiva, una relazione che ci impone di salvaguardare l’uguale diritto ad abitare la terra al di là delle differenze nazionali, razziali, religiose o di cittadinanza. Dalla coabitazione non scelta deriverebbe, in altri termini, una rivendicazione universalistica che prescrive istituzioni per le quali nessuna parte della popolazione possa essere «socialmente morta». Ciò impone inevitabilmente di criticare lo Stato-nazione, perché il nazionalismo si configura come ordine discorsivo fondato su «esclusioni costitutive», ma non conduce a una comprensione delle dinamiche transnazionali che oggi condizionano l’azione dello Stato o delle istituzioni che sarebbero chiamate a garantire il riconoscimento.

Così, mentre contesta la precarizzazione prodotta dalle «istituzioni governamentali ed economiche» e auspica istituzioni a venire che siano realmente capaci di inclusione, Butler tratta la precarizzazione come una sorta di «errore» contingente, che può sempre essere corretto attraverso la spinta performativa dei movimenti sociali. Proprio in quanto le condizioni della sua azione non sono sottoposte a scrutinio, lo Stato resta la controparte unica, necessaria e privilegiata dei movimenti sociali e la sua capacità di inclusione – quanto meno in crisi sotto la spinta del capitale globale – è semplicemente data per scontata.

La performance dei movimenti si risolve così per Butler in una funzione interna all’ordine sovrano. Questo può modificarsi e allargare i confini dell’inclusione, ma la logica del riconoscimento impone in ogni caso la necessità di un’autorità capace di metterlo in pratica. Per lei non sembra rilevante che il riconoscimento reciproco come uguali che ha, o dovrebbe avere luogo tra gli uomini e le donne che vivono la stessa condizione possa esprimersi in un rapporto con l’autorità caratterizzato anche dall’antagonismo anche radicale. Sebbene non pensi il «popolo» come figura identitaria ma come significante di una lotta costante per l’inclusione e come espressione della pluralità dei corpi che si assembrano pubblicamente, Butler propone un discorso tutto moderno sulla legittimazione democratica del potere costituito riducendo la performance a un momento, necessario benché problematico, della sua riproduzione.

La gabbia dell’universalismo

In questo ordine del discorso non trovano spazio la complessità e le contraddizioni che i movimenti sociali portano con sé. Per Butler non è rilevante la loro critica al capitalismo, alla politica e alla sua rappresentazione statale, né la possibilità che l’oggettiva e occasionale convergenza dei corpi si traduca in un progetto politico condiviso. Dare spazio al discorso dei movimenti sociali, d’altra parte, significherebbe farsi carico di tensioni che non sono facilmente riducibili al combinato di universalismo e pluralismo cui rimanda l’etica della precarietà. Dopo tutto, mentre mettevano in discussione la divisione sessuale del lavoro nelle cucine da campo, alcuni degli uomini di piazza Tarhir hanno cercato di impedire alle donne, anche attraverso la violenza, di prendere parte alla sollevazione. A Zuccotti Park, a Plaza del Sol, a Place de la République, all’interno di ogni movimento che abbia lottato e continui a lottare per l’uguaglianza, può affermarsi una considerazione patriarcale della libertà e del corpo delle donne.

Dare voce a queste contraddizioni senza affogarle nel pluralismo democratico è la sfida che ha di fronte ogni discorso che abbia la pretesa di essere espansivo, ovvero praticabile da chi, assembrandosi in massa, rifiuta la propria precarietà.

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