La tragedia dei marittimi morti gasati nelle stive del Sansovino a Messina mi riporta indietro negli anni, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta quando, appena diciottenne, mi imbarcai sulla petroliera Auriga Primo dell’armatore Grimaldi.

Trentaquattro uomini chiamati a governare cinquantamila tonnellate di stazza, un mare di petrolio che si spostava (insieme ad altre centinaia di migliaia di carghi) su e giù per gli oceani, là dove la società Amoco (a cui era stata noleggiata) ordinava.

A quell’epoca l’automazione difettava, come le tecnologie informatiche: l’apertura delle dodici e più cisterne in cui era suddiviso tutto lo spazio utile al carico era comandata non dalla plancia ma da valvole manuali, posizionate, ciascuna in corrispondenza di ogni tanca sul lunghissimo ponte di coperta, attorno alle quali nostromo e marinai armeggiavano senza posa durante le soste della nave ai terminal delle pipeline, affinché le operazioni di carico avvenissero nel minor tempo possibile e non sortissero pericolose inclinazioni dello scafo.

Erano gli anni della chiusura di Suez, decretata da Nasser alla fine della Guerra dei Sei giorni. Così, caricare in Mar Rosso significava venti-trenta giorni aggiuntivi di navigazione per circumnavigare l’Africa. Poi, dopo aver scaricato a Singapore o in Australia o dove il padrone ordinava, invertivi la rotta, non prima di aver fatto il pieno in quell’inferno del Golfo Persico.

E ogni volta, tra un carico (di petrolio) e il successivo, le cisterne venivano riempite d’acqua, per aumentare il pescaggio durante la navigazione, acqua che poi, mista ai residui di petrolio e ai solventi utilizzati per ripulirle, veniva di bel nuovo scaricata in mare…

Quante volte ho ripensato a questa sciagurata pratica; al fatto che i sinistri nei quali sono coinvolte le petroliere sono solo la punta dell’icesberg dell’immane disastro che l’intera industria del petrolio (che va dall’accaparramento dei giacimenti all’estrazione, dal trasporto alla raffinazione…) arreca all’ecosistema tutto. Al prezzo pagato dai lavoratori del mare; come dimenticare le loro facce stravolte, ridotte a tragiche maschere umane, quando, armati di palette e buglioli, con nessun’altra protezione che una tuta e una ridicola mascherina, emergevano dalle cisterne dopo aver rimosso lo spesso strato di melma e catrame che si depositava sul fondo delle stesse. Con l’unico conforto, allora come oggi, di un paio di bicchieri di latte (sempreché si riuscisse a sgamarla)!

A distanza di più di quarant’anni d’allora, che in termini di progresso tecnologico sono un’enormità, la sorpresa è che la vita umana, in mare come in terra, continua, incredibilmente, ad essere variabile dipendente dalla profittabilità del capitale. L’elenco delle vittime del Sansovino (guarda caso tutte marittimi) ne è la puntuale, tragica conferma!

Così, nel secolo del post-lavoro, perché contrassegnato dalla cancellazione di diritti, libertà e tutele, della precarizzazione selvaggia che si traduce immantinente in ricattabilità del lavoratore, possiamo solo contare i giorni che ci separano dalla prossima tragedia. O forse no, perché non ne avremo più nemmeno notizia.

Alessandro Punzo, Padova