“Faranno il deserto e lo chiameranno pace.
Il silenzio del «mondo civile» è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte.”
Così chiudeva il suo editoriale per «il manifesto» Vittorio Arrigoni il 27 dicembre 2008.

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Era il principio dell’operazione denominata «Piombo fuso» dalle forze armate israeliane contro la Striscia di Gaza, un disastro che ha portato la morte di ben 1400 palestinesi di cui, secondo le stime di Amnesty International, 400 rappresentati da bambini e civili, come ben documentato dal procuratore Richard Goldstone nel suo atto di accusa di ben 574 pagine, contro gli abusi commessi.
L’assordante silenzio del mondo civile è stato spezzato dalla volontà di ribaltare il corso degli eventi e trasmettere un messaggio di Pace, contro l’isolamento dal mondo della popolazione civile della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, da Domenico Maurizio Loi e Stefania Foddis.

Le persone reali, fatte di carne e sangue, come veicoli di trasmissione dell’informazione, con tutto il loro bagaglio di vissuti, speranze, memoria e angoscia, sono state incontrate, e ogni loro gesto, parola e testimonianza, raccolta per essere trasmessa e fatta conoscere al mondo.

Destrutturare dall’interno il senso comune consolidato, decostruire la martellante propaganda indotta che vuole Gaza come un “covo di terroristi”.

Contro la de-umanizzazione della popolazione civile della Palestina, privata della propria identità, appiattita sulla tirannide delle parole che vorrebbero cancellare la Storia, l’Umanità e la Speranza dei suoi nativi.
Maurizio e Stefania, titolari della Pizzeria Federico Nansen di Cagliari, guidati da Meri Calvelli e dal Centro Culturale Italiano VIK di Gaza, e accompagnati dall’attivista per i diritti umani Maria Rita Pirastu, la quale ha svolto la funzione di nutrizionista nella delegazione, hanno deciso di partire per la Palestina nel loro secondo viaggio verso i territori palestinesi.

Hanno deciso di chiudere la loro attività per l’occasione e investire tutte le loro energie per regalare un sogno di riscatto, di quiete agli uomini di quelle terre, con tutto lo stupore e l’entusiasmo delle persone che hanno incontrato. Alcuni infatti, increduli della loro scelta, hanno più volte manifestato l’incredulità per la loro decisione, ma fermi e convinti della forza della loro passione per l’esperienza che stavano compiendo, Stefania e Maurizio hanno saputo rapportarsi e integrarsi perfettamente con la gente del luogo.

Andiamo con ordine, proviamo a ricostruire l’itinerario che ha scandito le principali tappe del loro viaggio.

Verso la fine di maggio di quest’anno Stefania e Maurizio, giunti presso l’aeroporto di Tel-Aviv, hanno trascorso tre giorni nella West Bank, tra Betlemme città, Hebron e Ramallah.

Alloggiarono presso l’ostello di Dheisheh.

In questa seconda visita in Cisgiordania, hanno potuto constatare il dramma di Hebron, dove è possibile vedere i coloni che girano armati, indisturbati, presso le strade. Hanno visto le case dei coloni sottratte ai palestinesi.

Hanno visitato la moschea di Ibrahim a Hebron, la quale dopo la strage del 25 febbraio 1994, quando un colono armato di un fucile d’assalto fece fuoco uccidendo decine di palestinesi, ora al suo interno è stata messa una finestrella di vetro antiproiettile che separa la moschea dalla sinagoga di fronte.

Una volta giunti presso il valico di Heretz, è possibile percepire istantaneamente la differenza tra Israele e la Striscia di Gaza. L’ingresso a Gaza è stato duro.

Il primo impatto: fortissimo.

Stefania mi dice: “è come se il tempo si fosse fermato a Gaza.”

La distanza tra l’individuo e l’ingresso è scandito da sei tornelli, composte da alcune lastre di acciaio, dove si entra singolarmente, mai in coppia. Ogni controllo è automatizzato, di fronte a te non vedi nemmeno i soldati. Se sbagli qualcosa si può rimanere imprigionati come in una sorta di campo di concentramento. Senza alcuna via di fuga. Un disagio esistenziale indotto per creare una condizione di ansia perenne.
Uno scenario distopico, dai forti connotati cyberpunk.

A Gaza non esiste libertà di movimento, alcuni hanno raccontato di come la loro mobilità sia sparita totalmente dopo l’estate del 2005, quando l’esercito israeliano e il primo ministro Ariel Sharon, misero in atto il ritiro delle truppe e dei coloni dalla Striscia. “Almeno prima ci si poteva spostare per andare a lavorare” racconta la gente del luogo.

Una volta superato l’ingresso, Stefania e Maurizio si sono dedicati per 10 giorni a una serie di workshop con i ristoranti del luogo e alcune scuole alberghiere.
Hanno insegnato le tecniche di lavorazione della pizza, quali i sono i procedimenti da seguire, la lievitazione, ma è stata anche un’occasione per mettere a confronto le rispettive culture, proprio attraverso l’alfabeto universale del cibo.

Maurizio mi racconta del grandioso spirito di adattamento della popolazione di Gaza, un senso di apprendimento da parte dei giovani da lasciare meravigliati. In meno di 10 minuti infatti, una volta mostrati loro alcuni passi da seguire, hanno dimostrato di aver imparato subito tutto quello che era necessario fare.
In assenza di confronto, la loro presenza è stata occasione di crescita e sviluppo.

Tutto questo è stato possibile nonostante le difficoltà dettate dalle precarie condizioni materiali in cui versa Gaza, come la difficile reperibilità di alcuni prodotti, e in alcuni casi la loro totale assenza (come nel caso della polpa di pomodoro, sostituita con il concentrato).

Sono le conseguenze dell’assedio. Così come l’assenza di elettricità (Stefania racconta di come dovettero percorrere undici piani a piedi perché privi della corrente per gli ascensori), l’acqua salata, acqua che al di fuori di Gaza City in alcune zone è disponibile per sole tre ore al giorno.

Lo splendido mare di Gaza è stato inquinato, le falde acquifere avvelenate, gli scarichi delle fogne finiscono tutte in mare per via dei bombardamenti che hanno colpito i depuratori.
Dopo l’ultima operazione denominata «Margine Protettivo» partita l’otto luglio del 2014 e protrattasi per 51 giorni contro la popolazione di Gaza, la ricostruzione fatica a decollare per via del blocco imposto da Israele, il cemento non riesce ad arrivare.

La disoccupazione è dilagante, così come la povertà è in continua diffusione.

Le zone più colpite dopo l’ultima operazione sono situate a sud della Striscia, e Maurizio e Stefania hanno potuto visitare diverse località tra cui Rafah, Khan Yunis e Dayr al Balah.

Hanno potuto vedere alcune abitazioni e zone devastate dalle bombe del villaggio di Kuza’a.

Hanno potuto conoscere e toccare con mano quella surrealtà, incontrando i bambini di Gaza, che si attaccavano a loro, senza volerli più lasciare.

La gente di Gaza trascorre le notti insonni, la difficoltà nella rimozione dei dolorosi eventi della guerra toglie il sonno, il tutto accompagnato da un fortissimo disagio psicologico che si traduce in forme di patologie psichiche di varia natura.

Un esempio di come questo disagio venga alimentato è reso manifesto da alcune bombe sonore, lanciate da Israele per 30 giorni, due volte al giorno, con il risultato di produrre un effetto distorsivo e confusionale determinato dal forte suono.

I droni che sorvolano il cielo di Gaza.

In tutto questo Maurizio e Stefania hanno potuto lavorare con grande entusiasmo: quando finivano a scuola subito dopo correvano nei ristoranti, dove hanno visto e potuto conoscere la grande professionalità della gente del luogo, la volontà di scambiare le proprie culture, come nel caso di alcuni piatti italiani: la pasta all’arrabbiata è uno dei più tipici, o la pizza con la nutella.

Il loro lavoro è giunto al culmine attraverso il grande evento finale a Gaza City che ha visto la gente del luogo accorrere in massa per poter assistere al loro lavoro e per assaggiare i loro piatti uniti a quelli del luogo.
Una serata che ha preso il nome assonante di “Pizza Pazza in Piazza a Gaza”, e ha visto la presenza delle principali televisioni del Medio Oriente ma non solo..

Un vero e proprio esercito di televisioni era lì per intervistarli: dal Marocco, dall’Algeria, dalla Turchia, Al Jazeera, la BBC ecc.

Il tutto condotto con estrema dedizione e spirito di sacrificio, con turni di lavoro molto duri ma che sfociavano in un tripudio di felicità collettiva, nella volontà di trasmettere la propria presenza.

Maurizio e Stefania sono stati la finestra sul mondo per la popolazione di Gaza.

Hanno avuto la stessa funzione di un antidoto contro il malessere, contro i “diari di ordinaria tristezza”, parafrasando una celebre opera in prosa del poeta palestinese Mahmud Darwish.
Contro l’angoscia esistenziale che li perseguita.

Un teatro dell’assurdo, un dramma che va oltre la questione materiale, un male metafisico.

L’origine dei semi dell’odio, lo stesso che troviamo germogliare nel mondo, alla luce della questione palestinese, irrisolta da quasi un secolo.

Il messaggio di Maurizio e Stefania va al di là delle fazioni, delle contrapposizioni vigenti nella Striscia stessa e in Cisgiordania.

Il loro è un messaggio che veicola e racconta un dramma, accompagnato dalla memoria della Palestina e dei suoi abitanti, ma che racchiude la speranza: un linguaggio universale retto dalla volontà di non dimenticare di restare umani.

Tornano alla mente le parole che riportava Vittorio Arrigoni in un suo editoriale dal titolo L’amore sotto le bombe del 17 gennaio 2009, citando le parole dal blog di Raja Chemayel: «prendete un pezzo di terra, lungo 40 chilometri e largo all’incirca cinque. Chiamatelo Gaza. Poi riempitelo con un milione e quattrocentomila abitanti. Dopo di che circondatelo con il mare ad ovest, l’Egitto a sud, Israele a nord e ad est e chiamatela la Terra dei Terroristi. […] E ora chiamate tutto questo “Israele che si difende”. Adesso fermatevi per un momento e dichiarate che “eviterete di colpire la popolazione civile” e definitevi l’unica democrazia in azione. Sarà un miracolo, da qualunque punto di vista, evitare di colpire quei civili, oppure sarà semplicemente una menzogna dal momento che nessuno potrebbe evitare di colpirli a meno che non sia un bugiardo. […] Chiamate tutto questo come volete. Israele era perfettamente al corrente della presenza di quelle persone disarmate, perché è stato proprio Israele a metterle lì. E allora chiamatelo genocidio.
È più credibile».