Sabato la mia compagna mi dice: «Riccardo, la redazione del manifesto è a pochi metri da noi. Proviamoci». Siamo a pranzo fuori, nel cuore di Testaccio, per i nostri cinque anni insieme. Siamo due lettori affezionati, particolarmente toccati dalle sorti del referendum costituzionale. Le dico che non è un problema passare e con un pizzico di emozione iniziamo a dirigerci verso via Bargoni 8.

Nel camminare penso a tante cose: alle difficoltà che il giornale ha vissuto negli ultimi anni, al coraggio di chi ciononostante ha scelto di scrivervi, alle splendide prime pagine che ogni giorno impreziosiscono le edicole e alla mia esperienza personale con il quotidiano. Un cammino iniziato tanti anni fa e rispettato tradizionalmente (quasi) ogni mattina, spendendo nella maniera migliore i miei € 1,50 giornalieri.

Ne «il manifesto» ho sempre trovato una guida intellettuale pronta a chiarirmi le idee e a dare un’identità ai miei pensieri, utile come punto di riferimento per i molti ragazzi/e di sinistra oggi orfani di un partito all’altezza.

Ne «il manifesto» ho trovato una critica anti renziana di tutto rispetto, costruita su dati e opinioni concrete e non sul becero interesse propagandistico dei vari Meloni e Salvini.

Ne «il manifesto» ho trovato un fronte di opposizione a Israele commovente, interpretato dalle inchieste di Michele Giorgio e dai pezzi impeccabili di Chiara Cruciati.

Ne «il manifesto» ho trovato un amico con cui parlare di politica, cui confidare i miei ideali in maniera intima e profonda, senza doverli nascondere dai pregiudizi altrui.

Perché leggere «il manifesto» significa anche nascondersi, a volte. Sul luogo di lavoro, ad esempio, succede spesso di essere indicati come «vecchi comunisti». Si viene anche derisi per questo. Non sanno che in un momento come quello attuale, questo “pezzo di carta” è l’ideale pragmatico di comunismo che più funziona, con tanto di baffo rosso mostrato a testa alta.

Quando sui treni o nei bar noto un lettore de «il manifesto» succede sempre la stessa cosa: sento di dovermi alzare e correre ad abbracciarlo.

Questo e altro ci spinge a citofonare in redazione, non trovando risposte («il citofofono è rotto», scoprirò più tardi). Poi magicamente il portone si apre, troviamo la scala giusta e bussiamo alla porta.

Veniamo accolti dai sorrisi di Lia Dadduzio e di Daniela Preziosi, nonché di altri colleghi cui non ho avuto la premura di chiedere i nomi. Ci consegnano subito una copia omaggio («NO signore»), poi ci mostrano il cuore di una redazione che pulsa impegno e coraggio. Lo si vede dai volti accoglienti ma tesi dei giornalisti che la popolano, già concentrati – chissà – sulla prima pagina da concepire il giorno successivo all’esito del referendum costituzionale. L’incontro con Norma Rangeri, impegnatissima anche lei, mi tocca nel profondo. Il suo ufficio è in fondo al corridoio, a sinistra. In cuor mio voglio pensare non sia un caso.

Il giorno del No è arrivato e «il manifesto» ha titolato con “Bello ciao”, scatenando senza sorprese il mio quotidiano autocompiacimento. Perché ritrovarsi nelle idee di un giornale stampato su carta e che profuma di vera sinistra è oggi un’impresa titanica e d’altri tempi, in giorni durissimi.

Ha vinto il No e credo che il nostro incontro in via Bargoni abbia contato qualcosa.

Lavoro come giornalista con un Compagno al mio fianco che so esserci sempre, ogni mattina, e che spero di incontrare professionalmente quando sarò pronto. Quel Compagno è il manifesto e io l’ho incontrato di persona. Ne andrò sempre fiero.

Grazie per le battaglie e soprattutto per averci aperto le porte di casa.