Nella discussione sulla moneta, Giorgio Lunghini (il manifesto, 29 settembre), si chiede, con comprensibile preoccupazione, quali potrebbero essere le conseguenze per il mondo del lavoro di una dissoluzione della moneta unica. Questa domanda non ha risposte facili. Certo, se ad abbandonare l’euro fosse un paese grande come l’Italia vi sarebbero ripercussioni sulla zona euro e fasi di instabilità finanziaria. La domanda, tuttavia, non è se l’uscita dall’euro sia una cattiva opzione, ma se sia necessariamente la peggiore.

Le previsioni di quel che potrebbe avvenire non offrono risposte sicure, il ventaglio degli scenari immaginabili è ampio e gli esiti dipendono moltissimo dai comportamenti delle banche centrali e dalle azioni dei governi.

A chi prospetta scenari negativi si deve rammentare che lo statu quo non ci sta affatto proteggendo dall’instabilità o dal peggioramento delle condizioni economiche e sociali, ma, al contrario, tende ad accentuarli. La vicenda dell’euro ha impresso una tendenza deflazionistica all’economia europea mostrando il suo vero volto nella terribile gestione della crisi, ed è accompagnata dalla sfiducia crescente negli organi di governo dell’Unione europea, dalla crescita dei nazionalismi e di forze reazionarie, dalla chiusura delle frontiere.

In Italia la situazione è gravida di pesantissimi rischi e sconta da tempo i guasti delle euro-politiche: deindustrializzazione, disoccupazione elevata e persistente, erosione dei redditi e dei diritti dei lavoratori, tagli allo stato sociale, concorrenza fiscale e salariale da parte di paesi interni all’eurozona.

In questo contesto l’alternativa euro/non euro dev’essere valutata alla luce dell’obiettivo prioritario di forze politiche progressiste, quello della piena occupazione e di migliori condizioni di lavoro. Noi riteniamo che la crescita dell’occupazione si possa avere solo con una forte ripresa della domanda, una strategia impossibile nell’attuale palinsesto della politica economica europea.

La ripresa della domanda non può iniziare dai consumi o dagli investimenti privati, perché questi non hanno modo né ragione di ripartire in una economia depressa (gli investimenti nella eurozona sono molto al di sotto del livello del 2007, in Italia lo scarto è del 30 per cento). Lo stimolo iniziale può dunque venire o da una ripresa delle esportazioni o dalla spesa pubblica. Le esportazioni sono recentemente aumentate verso i paesi extra-eurozona, grazie alla politica di Draghi che ha fatto svalutare l’euro rispetto al dollaro, ma la crescita è rimasta asfittica. Non ci resta che l’espansione della spesa pubblica, che suscita timori per il debito pubblico.

Tuttavia, in un paese che gode di sovranità monetaria, il vincolo vero alla crescita della spesa pubblica non è il debito pubblico (semmai sono le politiche di austerità che fanno crescere il debito in rapporto al Pil), bensì il vincolo esterno cioè l’eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni che si può verificare con una crescita della domanda e della produzione interna. Per fronteggiare questo vincolo, l’Italia dovrebbe affidarsi ad un mix di strumenti in grado di sostenere la spesa pubblica (per altro indispensabile se non vogliamo distruggere scuola, ricerca, sanità, infrastrutture) con una politica monetaria accomodante, una svalutazione della moneta rispetto a quei paesi europei verso i quali c’è stato un apprezzamento del tasso di cambio reale (la svalutazione non fa miracoli, ma contribuisce a tenere a bada i conti esteri in un paese manifatturiero) e con politiche industriali orientate ad attenuare il vincolo esterno.

L’abbandono della moneta unica potrebbe riconsegnare ai governi nazionali, soggetti al giudizio degli elettori, l’insieme degli strumenti di politica macroeconomica utilizzabili per far crescere l’occupazione e che sono oggi largamente preclusi dall’assetto istituzionale e dalle politiche dell’unione monetaria europea.

È per questo che la fine della moneta unica è un evento che non può essere escluso, e la gestione di un tale difficile passaggio richiederebbe una classe dirigente attrezzata e una Banca Centrale leale al governo del paese – un vincolo politico sul quale è legittimo interrogarsi.

Vorremmo però ricordare le parole di Keynes. Quando, nel 1925, il governo inglese tornò ad ancorare la sterlina all’oro, Keynes denunciò il gold standard come «l’idolo di quelli che siedono nella cabina di comando», un Moloch finanziario che chiese prima il sacrificio delle condizioni di vita dei minatori e poi il sacrificio del posto di lavoro degli insegnanti. Quando nel 1931 la situazione divenne insostenibile e la sterlina abbandonò il sistema, Keynes commentò che «pochi sono gli inglesi che non si rallegrino della rottura del nostro legame al gold standard» e aggiunse: «Potrà sorprendere che una decisione del genere, presentata come un disastro catastrofico, sia stata accolta con tanto entusiasmo».