La prima questione che la vicenda greca richiama riguarda una domanda che emerge proprio dalla stessa crisi: è possibile, nell’Europa attuale, un governo di sinistra? Quello di Syriza è il primo governo di sinistra nell’Unione Europea. È sicuramente un caso particolare, di uno stato troppo debole e indebitato per esercitare, al momento, un governo compiutamente autonomo. Ma la natura dell’Ue lascia pensare che se anche un governo di sinistra si affermasse in paesi più forti e meno sottoposti al controllo della Troika, le differenze con il caso greco sarebbero di grado, non di sostanza.

Il governo Tsipars è riuscito in poco tempo a costruire una forte egemonia interna, come hanno sancito la vittoria del No e il fatto che le principali opposizioni abbiano dovuto decidere di sostenerlo nelle trattative con l’Europa. Questo è già molto, ed è raro. Solo alcuni governi latino-americani sono riusciti negli ultimi anni a utilizzare il governo per costruire egemonia, sventando grazie a questa egemonia tentativi di golpe, proprio com’è accaduto a Syriza nelle ultime settimane (il referendum ha momentaneamente fermato il tentativo europeo di rovesciare il governo). Mai, invece, questa operazione egemonica è riuscita a un governo europeo di centro-sinistra, che di solito crolla nei consensi nel giro di settimane.

Nello stesso tempo, ciò che Syriza sta riuscendo a ottenere da una posizione di governo – che, nel contesto dato, è il massimo che potesse ottenere – è piuttosto lontano dai suoi obiettivi originari. L’Unione europea rende sostanzialmente impossibile la realizzazione di programmi redistributivi, la ripresa di un significativo intervento pubblico in economia, una politica industriale, e perfino politiche di sostegno alla povertà (che cinicamente la mano dell’Ue cancella con la penna rossa dalle proposte di Atene). Si tratta di realismo, non di ideologia: il programma di Syriza era un programma riformista, ma anche questo sembra irrealizzabile.

Come renderlo realizzabile?

I partiti della sinistra radicale in Europa hanno acquisito un’ottica di governo: vogliono governare, da soli o se necessario in coalizione. Come la situazione greca mette in luce, nell’attuale contesto europeo la realizzazione di un programma di sinistra è quasi impossibile. Si può scommettere sul fatto che la vittoria di Syriza abbia aperto un ciclo politico che porti le sinistre a vincere in Spagna, in Irlanda, in Portogallo e poi magari in Italia, e che in questa situazione i rapporti di forza si modifichino al punto da poter cambiare la costituzione materiale dell’Ue.

Ma ciò può anche non succedere. È impensabile, allora, che una sinistra che aspira al governo si ponga il problema di una «exit strategy»? Se l’Europa rende impossibile qualsiasi politica keynesiana e redistributiva, l’appartenenza all’Eurozona dev’essere confermata a ogni costo? Anche se la risposta è affermativa, la domanda non può essere, realisticamente, elusa. Una forza negoziale si costruisce anche sulla base di alternative percorribili. Che non possono però riguardare un solo paese, ma implicano la costruzione di un vasto sistema di alleanze internazionali alternative, o complementari, a quelle attuali.

In secondo luogo. Non c’è solo l’Unione europea a paralizzare l’azione dei governi. Lo fanno anche il capitale finanziario e quello produttivo. Gli Stati sono totalmente dipendenti dai mercati finanziari. Una politica non gradita a questi ultimi verrebbe colpita da attacchi speculativi e dal mancato finanziamento del debito pubblico. Le imprese, nazionali o straniere, hanno poi il potere di reagire a politiche redistributive o favorevoli al lavoro con la minaccia dello spostamento della produzione, come hanno fatto da ultimo gli armatori greci.

Come si può realisticamente affrontare questa doppia minaccia?

La «sinistra di governo» deve costruire un’alternativa agli attuali strumenti di finanziamento del debito, e deve pensare a come costruire una nuova economia pubblica, una nuova capacità di intervento diretto dello Stato nell’economia produttiva, che contempli anche la proprietà diretta delle imprese (in forme sicuramente innovative). È l’unico modo per dotarsi di una capacità di reazione alla minaccia di «esodo» del settore privato. Storicamente si è assistito a ciclici conflitti tra Stato e capitale. Bisogna immaginare le forme contemporanee di tale conflitto.

Infine, è possibile che della crisi economica in corso abbiamo visto solo la prima parte. Lo spostamento a Est del centro dell’economia mondiale rende stabile la crisi di crescita delle economie occidentali. Vista l’attuale redistribuzione della produzione e dei servizi a livello internazionale, bisogna prendere atto del fatto che le società occidentali stanno sperimentando una «decrescita» forzata della produzione e dei livelli di vita.

Analisi rigorose sulla disoccupazione tecnologica evidenziano poi come l’automazione e la robotizzazione stiano fortemente riducendo, dopo l’occupazione manuale, quella intellettuale. È possibile che nei prossimi due decenni tassi di disoccupazione del 30% (secondo studiosi seri come Randall Collins, anche del 40 o 50%) diventino normali, perché l’innovazione tecnologica non si ferma. Come affrontare questi problemi? È possibile progettare sistemi sociali ad alto sviluppo tecnologico in cui il lavoro sia ampiamente redistribuito e sia comunque garantito a tutti il reddito necessario per una vita dignitosa? Come farlo? La riduzione dell’orario di lavoro e il reddito di cittadinanza potrebbero richiedere applicazioni molto più estese e radicali di quelle a cui si pensa attualmente.

Questi due aspetti – crisi di crescita e aumento della disoccupazione tecnologica – fanno anche dire a un altro importante scienziato sociale, Immanuel Wallerstein, che il capitalismo andrà incontro a una crisi sistemica nell’arco di 30 anni, anche per il fatto che nessuno Stato, dopo gli Usa, avrà la forza sufficiente per costruire uno stabile ordine mondiale. Abbiamo di fronte, potenzialmente, scenari di questa portata.

Fino a 30 anni fa, la sinistra era anticipazione, la destra conservazione e difesa. Da trent’anni la sinistra si difende. Riusciamo a costruire conflitti importanti solo per difendere diritti consolidati. Di solito li perdiamo. La sinistra di governo deve ricominciare ad anticipare i cambiamenti, prima che si manifestino come emergenza. Bisogna approfondire nel dettaglio tutte le variabili in gioco e dotarsi di programmi di governo realistici. Realistico significa adeguato alla radicalità dei mutamenti in corso.

La società è sottoposta a un movimento fortissimo, probabilmente destinato a crescere. Tutto è in gioco: gli assetti economici e sociali, le forme della politica, le strutture istituzionali, i rapporti tra le culture. Per poter essere parte di questo movimento e candidarsi addirittura a guidarlo, la sinistra deve tornare a incarnare un intero modello di società.