Lula da Silva nel mirino. L’ex operaio metalmeccanico – eletto presidente nel 2003 e rimasto in carica fino al 2010 – è stato rinviato a giudizio per «tentata ostruzione» dell’inchiesta Lava Jato. La Mani pulite brasiliana indaga sui fondi neri versati ai politici dall’impresa petrolifera di Stato Petrobras. Un sistema che ha coinvolto un gran numero di deputati e senatori dei principali partiti. In questo caso, oltre a Lula andranno a processo altre sei persone, politici, imprenditori e banchieri. Il giudice Ricardo Leite, della decima sezione della Corte federale di Brasilia, li accusa di aver voluto comprare il silenzio dell’ex direttore di Petrobras, oggi pentito.

Lula – ancora popolarissimo e candidato alle presidenziali del 2018 per il Partito dei lavoratori (Pt), che ha contribuito a fondare – è indagato anche dalla procura di Curitiba per sospetto riciclaggio di denaro e occultamento di fondi nel caso di una proprietà di vacanza. Un’indagine diretta dal giudice Sergio Moro, diventato il simbolo dell’inchiesta Lava Jato. L’ex operaio metalmeccanico, che Dilma Rousseff avrebbe voluto nominare capo di Gabinetto, a marzo è stato addirittura portato a forza in caserma e trattenuto per ore, e subito messo alla gogna dai grandi media privati. Lui si è sempre dichiarato innocente e in questi giorni ha denunciato all’Onu «gli abusi di potere» dei magistrati della Lava Jato e presentato ricorso al Consiglio dei Diritti umani.

Che dopo 13 anni di governo il Pt sia rimasto impantanato in quel sistema di potere che avrebbe dovuto combattere, è un fatto acclarato. Tuttavia, vista la percentuale di deputati e senatori di altri partiti, coinvolti in fatti di corruzione, in questi mesi è apparso evidente anche l’uso politico e mediatico delle inchieste giudiziarie, spesso rivolte da una parte sola. La legge che favorisce la delazione in cambio di un trattamento giudiziario di favore, sul modello di quella italiana, ha provocato un profluvio di accuse e controaccuse e intercettazioni video anticipate dai media, avvisi di garanzia e atti processuali usati come arieti per demolire gli avversari politici. Un gioco incrociato che ha finito per ritorcersi anche contro i suoi principali ispiratori, evidenziando i grandi interessi in ballo.

Proprio la diffusione di alcuni video, registrati prima che si mettesse in moto il processo di impeachment alla presidente, hanno portato alle dimissioni di tre ministri del gabinetto Temer, nominato dopo la sospensione di Rousseff. In quell’occasione, sono apparsi evidenti i contorni del golpe istituzionale, architettato contro Dilma dall’ex presidente del Parlamento Eduardo Cunha e dallo stesso Temer per proteggersi dall’inchiesta Lava Jato, che Rousseff non intendeva bloccare. Sia Cunha che Temer appartengono al pluri-inquisito Partito del Movimento democratico brasiliano (Pmdb), alleato (di destra) del Pt, formazione sempre determinante nel frastagliato quadro partitico brasiliano, pur non avendo mai vinto un’elezione. I termini della farsa, evidenziati dalla percentuale di corrotti che ha votato l’impeachment alla presidente in base ad accuse inesistenti, sono apparsi ancora più evidenti quando a doversi dimettere per corruzione è stato il Ministro per la Trasparenza, nominato da Temer.

Che il margine di manovra consentito dal Pt agli interessi del gran capitale stesse diventando sempre più ampio, è dimostrato dall’erosione del consenso di cui ha sofferto il secondo governo Rousseff. Imbottigliata nell’alleanza-capestro con il Pmdb, Dilma ha inizialmente nominato un pessimo ministro delle Finanze: pessimo per i movimenti popolari che le rimproveravano di aver tradito le promesse elettorali, lasciando le decisioni economiche nelle mani di un fautore del neoliberismo più spinto, Joaquim Levy. Di fronte alle proteste popolari, ha poi cercato di opporsi ai piani delle destre dando corso ad alcune misure di cambiamento promesse in campagna elettorale. Il Pt ha anche votato al suo interno una svolta a sinistra e garantito la scelta di nuove alleanze, qualora riuscisse a tornare al governo. E Dilma ha promesso che se tornerà a governare indirà nuove elezioni e favorirà la messa in atto di quel nuovo patto sociale richiesto a gran voce dalla sinistra di alternativa.

Un messaggio importante, visto che la piazza, più che le improbabili alchimie istituzionali sembrano offrire un vero argine alle devastanti politiche messe in campo da Temer. Dal 12 maggio, quando ha assunto l’interim, Temer sta procedendo secondo lo stesso format applicato da Mauricio Macri in Argentina anche se, secondo i sondaggi viene rigettato dall’80% della popolazione. Ma non è alla maggioranza che Temer deve rispondere, bensì ai poteri forti che lo sostengono. E così, dopo i licenziamenti massicci, la promessa di aumentare l’età pensionabile e la giornata lavorativa, sta privatizzando fette sempre più importanti del patrimonio pubblico. Adesso, sta procedendo alla svendita della Petrobras. In gioco, c’è la gigantesca zona estrattiva del presal. L’8 maggio, la produzione di petrolio presal aveva raggiunto un nuovo record, superando il milione di barili al giorno. Il 70% andava nelle casse di Petrobras. Ma, com’è già avvenuto in Messico, Temer vuole smontare l’influenza dell’impresa statale e sta svendendo le quote di partecipazione: per cominciare, a un’impresa argentina e a una norvegese. Giovedì, i movimenti popolari hanno protestato, circondando in un «abbraccio» gli edifici di Petrobras a Rio de Janeiro.