Il filo di perle non spunta più dalla camicetta verde, quando Boushra Almutawakel (Sana’a, Yemen 1969) avvolge il capo nell’hijab nero. Procede lentamente davanti alla parete della galleria Howard Greenberg di New York, dove si susseguono nove fotografie della serie Mother, Daughter, Doll (2010), esposte in occasione della mostra The Middle East Revealed: A Female Perspective (visitabile fino al 30 agosto).
È riconoscibile il suo volto, quello di una madre con la sua bambina che, a sua volta, stringe protettiva la bambola. Sagome che progressivamente perdono la spensieratezza annullando colori e profili in un nero cupo che parla da sé. I primi schizzi e l’idea iniziale risalgono al 2008, ma solo due anni dopo la fotografa yemenita ha avuto l’occasione di realizzare il progetto durante un workshop.
«Dovevamo organizzare un set e le foto sarebbero state esposte in occasione della mostra finale – spiega Boushra Almutawakel – Inizialmente pensavo di fotografarmi insieme a tutte e quattro le mie figlie, ma risultò troppo difficile, così alla fine è presente solo una di loro. Il lavoro non è che la mia osservazione su una situazione molto conservatrice come quella dello Yemen, che oggi è ancora più «chiuso» di un tempo. Riguarda vari settori, uno è il modo in cui non solo le donne devono coprirsi, ma anche le ragazze. Come adulta, personalmente, non sono contraria all’uso dell’hijab. Il motivo è coprirsi alla vista degli uomini. Ma non funziona. Anche se ci copriamo dalla testa ai piedi, gli uomini ci trapassano con lo sguardo e fanno commenti. Invece di dare tutta la responsabilità alle donne, è necessario che gli uomini si assumano le loro e comincino a rispettarci come esseri umani».

Nel 2005-2006, in Yemen, lei ha lavorato per il Ministero dei diritti umani per mettere a fuoco la condizione femminile nel suo paese, tematica centrale anche nel suo lavoro artistico… Qual è la forza di uno strumento come il linguaggio fotografico?

Da parte mia, almeno all’inizio, non c’era la consapevolezza delle potenzialità di questo strumento. Ma, fin dall’inizio, sono rimasta molto sorpresa dalle reazioni che ho registrato – in Yemen e fuori – nei confronti del mio lavoro e di quello di altre artiste. Mi colpiva soprattutto come le persone discutessero fra loro, arrivando quasi a combattere. È molto potente che io possa dire qualcosa con la fotografia. Forse è più accettabile per la società che io sia un’artista visiva. Se fossi stata una scrittrice, non sono certa che avrei potuto dire le stesse cose. Posso esprimermi, anche se non a tutto il mio pubblico piace quello che dico e porto alla luce con i miei argomenti.

«Mother, Daughter, Doll» (2010) è una delle sue serie più famose. Vedendo la sequenza luminosa che si conclude con il buio totale che avvolge le figure, mi è venuto in mente un mio ricordo di Sana’a di qualche anno fa, quando sono stata in un vecchio hammam. Lì, naturalmente, le donne, che in giro sono velatissime (quasi tutte indossano anche guanti neri) erano spogliate e sembravano unite da una certa complicità. In occidente vige l’idea di una sorta di schizofrenia che vive la donna araba indossando il velo. Come risponde?

In Yemen non ci si rende neanche conto di questo. È una società molto segregativa. Come nell’hammam, ci si riunisce tra donne anche in altre occasioni. Pure gli uomini lo fanno tra di loro. Non usiamo mischiarci. Non so se lei ha mai frequentato qualche festa. In tali occasioni, le donne curano molto il loro abbigliamento e indossano abiti scollati e sexy, perché si sentono libere di poterlo fare. È in Occidente che c’è chi non capisce questa realtà. Si pensa che siamo vestite di nero 24 ore su 24. Ma quella è una parte della nostra esistenza. E non ha importanza solo ciò che indossiamo. Abbiamo una testa, un cuore, un’anima, dei pensieri. Vederci in quel modo, è uno stereotipo. Lo è anche ragionare sull’essere favorevoli o meno al velo…. La vita per noi va avanti e non stiamo certo a pensare che stiamo indossando l’hiqab o l’hijab. Abbiamo ben altro da fare.

Ricevere nel 1999 il titolo di «Prima Donna Fotografa dello Yemen» da parte dell’Empirical Research and Women’s Studies Centre dell’Università di Sana’a le ha dato delle possibilità in più?

È stato un progetto della mia insegnante di Studi sulla Donna. Rauffa Hassan, che ora non c’è più… era una persona meravigliosa. Era femminista e all’epoca stava scrivendo un libro sulle pioniere in Yemen. Nell’elenco, che include anche la prima donna che è andata in bicicletta in pubblico, la prima pilota, il primo medico… ci sono finita pure io. Ha intervistato ognuna di noi e ci ha invitate in occasione di quell’evento. È stato un modo per riconoscere il mio lavoro, ma non credo che mi abbia dato altre opportunità.

Ha mai avuto problemi nello svolgere il suo lavoro artistico?

Forse sarebbe stato differente se non fossi stata sposata. Il matrimonio mi ha dato una grande libertà. Sono stata fortunata perché mio marito è molto aperto e mi supporta. Sì, comunque, in alcune occasioni ci sono persone che non si sono fatte fotografare perché ero donna o altre che mi hanno in presa in giro. Se mi fossi lasciata condizionare sarebbe stato pesante, ma non ci ho fatto caso. Piuttosto, le difficoltà maggiori sono state quelle di trovare delle risorse per andare avanti.