«Nel 1989 fu dichiarato estinto da tutto il Medio Oriente, quando l’ultima colonia conosciuta fino ad allora scomparve (…). Un’emozionante continuità esiste ancora attraverso i millenni, come ho potuto appurare con vertigine storica un giorno nella tenda di Talal, un anziano nomade».
Il destino di un uccello, l’ibis eremita, e la storia di un popolo, quello siriano, s’incrociano: non una semplice coincidenza geografica. In Salam è tornata (il libro appena uscito per Exòrma, pp. 240, euro 15.90) Gianluca Serra – biologo esperto di ecologia comportamentale – racconta la sfida della natura e dell’uomo. Un romanzo sorprendente, non privo di durezza e realismo. Non è un diario, ma il suo intimismo ne ricorda le fattezze: Salam è tornata è la cronaca di un’impresa: quella di un italiano che nel deserto di Palmira, scopre l’ultima colonia di ibis, creduti ormai estinti. Serra sperimenta anche l’umanità di un Paese dittatoriale travestito da democrazia: la pluralità di cui c’è traccia nell’ultimo capitolo è lo specchio della contemporaneità vissuta attraverso le esperienze di due rifugiati che ce l’hanno fatta; di Rahmun che è rimasto e di Ahmed e Mahmud che tentano ancora di fuggire.

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L’ibis che torna a Palmira è una storia straordinaria – anche simbolica – di sopravvivenza: la natura è davvero più forte di tutto?
L’uomo sta trasformando il pianeta in un deserto, distruggendo gli ecosistemi e provocando l’estinzione di animali e piante a ritmi vertiginosi: si parla di centinaia, se non migliaia l’anno. Quando realizzerà che questa è una strategia suicida, forse sarà troppo tardi: sarebbe la prima specie nella storia del pianeta che provoca la propria estinzione. Salam era l’ultimo esemplare della stirpe di ibis eremita orientali; una femmina tornata da sola a Palmira nel 2013 e 2014, prima che la colonia sparisse del tutto. In questi due anni di solitaria migrazione deve aver sorvolato i paesaggi dell’abominio della guerra umana, portando con sé il suo nome utopico e un po’ fuori luogo (salam, in arabo, vuol dire pace). Quanto alla vita sulla Terra, difficilmente svanirà: sopravviveranno gli organismi più resilienti e l’evoluzione della vita ricomincerà, lenta ma inesorabile.

Cosa ha significato la scoperta della colonia?
Nell’aprile del 2002 ho coronato il sogno più ardito di ogni naturalista; è stata una gioia immensa. C’è chi l’ha descritta come la «scoperta del Tutankhamon dell’ornitologia orientale». Ma c’era poco tempo per abbandonarsi all’euforia: bisognava cercare di salvare gli ultimi ibis. Tutto sembrava possibile, e così ci buttammo a capofitto in una saga di conservazione durata ben nove anni.

Esiste ancora l’ibis eremita?
Adesso che l’ultima colonia del Medio Oriente si è estinta, – qualche discendente palmiriano ancora gironzola tra Arabia Saudita ed Etiopia – la riproduzione è finita. Rimane un gruppo del Marocco di un centinaio di coppie. Poi ci sono quelli negli zoo che vengono reintrodotti, ma non sono esemplari autonomi. L’ibis ha bisogno del suo habitat, soprattutto coltiva la necessità di essere lasciato in pace dagli uomini.

Da biologo a romanziere: cosa l’ha spinta a scrivere?
Era qualcosa che dovevo ai miei fratelli palmiriani che si sono ritrovati in mezzo agli orrori della guerra, e nonostante tutto hanno cercato di proteggere gli ibis. Lo devo a questa generazione, ai miei figli, affinché s’impegnino nella salvaguardia di quel che resta della diversità biologica. Questa è una storia di lutto: scriverla mi ha aiutato a elaborare dentro di me il dolore. L’ho fatto in un periodo particolare della vita, mentre con la mia compagna crescevamo due bimbi su un’isola polinesiana (dove attualmente vive e lavora a un programma ambientale per l’Oceania, ndr). Nonostante stanchezza e stress, di sera avevo ancora la forza di mettermi alla scrivania.

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Perché decise, a un certo punto, di andare in Siria?
L’Onu mi scelse per un incarico da esperto di biodiversità. Provai a oppormi – volevo andare ai Tropici, vagheggiati paradisi da naturalista – ma dovetti arrendermi. Come racconto, l’arrivo a Palmira mi provocò una profonda depressione. Eppure, ben presto m’innamorai del posto e della sua gente. Ma la scoperta dell’ibis mi fece letteralmente perdere la testa: quella divenne casa mia a tutti gli effetti. Abbandonai ogni velleità di far carriera e, per anni, feci il volontario.

Com’era, allora, la Siria, quella che lei ha conosciuto?
Quando arrivai, nel 2000, trovai un Paese che veniva da un isolazionismo decennale. Ho incontrato persone e culture molto affascinanti, il turismo occidentale non aveva ancora corrotto la Siria. Pochi mesi dopo morì Hafiz al-Assad, che aveva controllato il Paese con pugno di ferro per quasi quanrant’anni. Il giovane figlio nutrì in molti speranze di riforme. Purtroppo tutte le promesse caddero nel vuoto. Il mio ultimo viaggio in Siria è stato nel febbraio 2011: seminavo l’inizio di un nuovo progetto. Ero riuscito ad assicurare un finanziamento per continuare il lavoro a Palmira, ma la guerra ha poi interrotto tutto. Da allora, non ho più visto i miei amici. Sono rimasto in contatto con loro grazie a internet. I siriani sono persone semplici e stupende. È stato un privilegio condividere con loro esperienze e avventure. Ad alcuni sono profondamente legato, siamo diventati fratelli. In questi anni, ho fatto tutto ciò che potevo, mandando loro piccole somme di denaro. Negli orizzonti aperti e spettrali di Palmira ho ritrovato me stesso, letteralmente. È stata un’incredibile scuola di vita per me, nato e cresciuto in un ambiente cementificato e borghese.
Nell’ultimo capitolo del suo libro, il mondo animale incontra quello umano: dalla sopravvivenza dell’ibis al tentativo di fuga dei rifugiati…

Da quando la guerra è esplosa la mia attenzione si è spostata su di loro, i miei amici a rischio di estinzione. Queste testimonianze danno l’idea di ciò che i siriani stanno vivendo oggi.

Cosa possiamo dire sia andato definitivamente perduto?
Cinque anni di guerra, inutile dirlo, hanno raso al suolo il Paese. Alcune generazioni cresceranno sulle macerie di uno Stato con poca educazione e mezzi ancora più esigui. Aleppo e Palmira – gioielli del patrimonio dell’umanità – sono state distrutte. Pezzi fondamentali della prosperità artistica e monumentale annientati, come pure quel po’ di natura che era rimasta. Se la guerra finisse domani, ci vorrebbero almeno dieci anni prima di vedere il Paese compiere i primi passi verso la rinascita.

Non esiste per lei una possibile via di salvezza?
Un coacervo di culture ed etnie molto complesso – simile per eterogeneità a quello dei Balcani – tiene il Medioriente in costante ebollizione. La Siria non è diversa dal Libano, dove la guerra civile è durata dal 1975 al 1990. Lì, il paese è riuscito a risollevarsi dalle macerie. Purtroppo, però, è sempre sull’orlo di riesplodere.

Che fine ha fatto, in questo difficile contesto, Salam?
Doveva avere già una certa età quando è tornata a Palmira, nel 2014. Mi piace pensare che sia morta di cause naturali dovute all’età. Temo, purtroppo che – come molti altri esemplari – sia stata fucilata sulla rotta migratoria in Arabia Saudita. La telemetria satellitare ci ha fatto scoprire che tra il 2006 e il 2010 questa è stata la causa più importante di declino della colonia di Palmira. In Italia di bracconaggio ne sappiamo qualcosa (proprio qualche giorno fa, un Ibis eremita è stato ritrovato morto ad Angone di Darfo dalle guardie venatorie del Wwf di Brescia, ndr). Il nostro Paese condivide con altri del Mediterraneo una certa indifferenza per il proprio patrimonio naturale e un’incredibile tolleranza per un tipo di attività totalmente anacronistico.