Quattro riforme, tra cui quella delle pensioni, da approvare entro domani, un piano di licenziamenti pubblici da varare in appena una settimana, la cancellazione delle leggi approvate nei cinque mesi di governo Tsipras (a partire dalla riapertura della tv di Stato Ert, chiusa dal precedente premier Antonis Samaras). Ma soprattutto una cessione assoluta di sovranità: ad Atene torna la troika, per ogni legge ci sarà un giudizio dell’Eurogruppo che servirà per l’avanzamento dei negoziati e l’erogazione dei prestiti e il governo dovrà «consultarsi e accordarsi con le istituzioni europee su tutti i disegni di legge nelle aree sensibili, con il giusto anticipo prima che queste vengano sottoposte all’attenzione pubblica o al Parlamento».

Il diktat europeo colpisce anche i referendum, che non saranno più possibili.

È questo il succo della capitolazione del governo greco sull’altare dell’austerità europea. Basta leggere le sette pagine del documento per rendersi conto della portata della resa di Alexis Tsipras e del suo ministro delle Finanze Euclide Tsakalotos e dell’umiliazione inferta a tutto il popolo greco, che appena una settimana fa a grande maggioranza aveva detto no a condizioni meno dure di queste. Le prescrizioni sono tutte di segno «recessivo», come ha dovuto ammettere lo stesso premier, ma quel che colpisce di più sono i toni, durissimi, con i quali queste vengono imposte alla Grecia: solo per fare un esempio, alla fine della lista di misure imposte viene sottolineato che questi «sono solo prerequisiti per cominciare i negoziati con le autorità greche». Ai limiti dell’impossibile anche i tempi di attuazione: entro il 22 luglio va approvato un elenco di leggi che non basterebbe una legislatura per scriverle. Impressionante anche il piano di privatizzazioni: la vendita degli asset per 50 miliardi di euro dovrà servire per metà a pagare il costo della ricapitalizzazione delle banche elleniche, mentre i restanti 25 miliardi andranno in parte a pagare i debiti e in parte potranno essere usati per investimenti.

Unica piccola concessione rispetto al documento serale dell’Eurogruppo, che il quotidiano tedesco Der Spiegel aveva definito «un catalogo di crudeltà», è che la dismissione dei beni pubblici sarà gestita ad Atene e non in Lussemburgo, come avrebbero voluto a Bruxelles.

In compenso, ci sarebbero i soldi (da 82 a 86 miliardi in tre anni, 7 per un prestito-ponte immediato che servirebbe a pagare le scadenze del debito di luglio e altri cinque entro agosto) del Meccanismo europeo di stabilità. Ma non c’è alcuna simmetria: l’approvazione delle leggi imposte dalla troika non procede di pari passo con gli stanziamenti economici. Solo nella parte finale si fa riferimento, più politico che normativo, a ipotesi di rinegoziazione del debito, escludendo però un «haircut», e a possibili investimenti: 35 miliardi di fondi europei per il lavoro nei prossimi 3-5 anni. Il resto è un elenco dettagliato di tagli, aumenti di tasse e liberalizzazioni: il già previsto aumento dell’Iva al 23 per cento, senza neppure l’esenzione di beni di prima necessità e medicinali come voleva Syriza; la privatizzazione della compagnia elettrica; persino l’apertura domenicale dei negozi e la regolamentazione dell’attività di farmacie e panetterie.

Sparito invece, rispetto alla bozza proposta dai greci, qualsiasi riferimento alle tasse sul lusso e agli armatori (quello che Jean Claude Juncker aveva rimproverato proprio a Tsipras, ergendosi a paladino dell’eguaglianza). Ma la parte più indigeribile, per un governo di ultrasinistra come quello di Syriza e in un paese con oltre il 27 per cento di disoccupati, è il via libera ai licenziamenti collettivi e l’abolizione della contrattazione collettiva, per non parlare della «depoliticizzazione della pubblica amministrazione». Che vuol dire ancora tagli al lavoro.