A.C. è una ragazza di 33 anni. Per dieci ha lavorato alla Margherita, poi al Partito Democratico come centralinista, addetta alla corrispondenza. Negli ultimi tempi ha ricevuto le chiavi della sede nazionale del partito guidato da Matteo Renzi in via S.Andrea delle Fratte a Roma, il Nazareno. Ogni giorno ha aperto e chiuso le sue porte. E ha preparato le sale per le riunioni. Forse anche quella dove Renzi ha siglato il controverso patto sulle riforme con Berlusconi. Dopo anni di prestazioni occasionali, di contratti a progetto, poi a tempo determinato, nel novembre 2007 è stata finalmente assunta a tempo indeterminato. Non dal Pd, appena fondato da Veltroni, ma dalla società per cui ha lavorato per dieci anni: la S&Pa Service, due anni fa ribattezzata «Gruppo spa».

A. C. ha lavorato fianco a fianco con i dipendenti e i funzionari del partito. Dall’ottobre 2013 ha osservato un orario full time di 40 ore a settimana, dal lunedì al venerdì, dalle 6 del mattino alle 13, oppure dalle 10 alle 17 e ancora dalle 13 alle 21, con uno stipendio da 1500 euro. Ore passate davanti al suo Pc, dietro la scrivania dove ha risposto sempre allo stesso telefono. Tutto di proprietà del Pd. A.C. ha eseguito le mansioni impartite dai suoi dirigenti e talvolta è stata ripresa verbalmente in casi di errori o malintesi. Nulla di grave. È quello che accade ogni giorno tra colleghi, in tutti gli uffici quando il rapporto è stabile e quotidiano. Il problema è che A.C., ufficialmente, non ha mai lavorato per il Pd.

Il primo maggio 2014, giorno della festa del lavoro, questa ragazza trentatreenne è stata licenziata insieme ad altre due persone. Non dal partito di Renzi, ma dalla ditta subappaltatrice. Dopo dieci anni di lavoro continuativo, il Pd se ne è liberato senza però averla licenziata. «Io ho sempre lavorato e basta, a stretto contatto con i dipendenti – racconta A. C. – Non ho mai rotto le scatole a nessuno. Mi sono trovata bene. Nell’ultimo periodo sapevamo che c’era nell’aria qualcosa di brutto. Per i dipendenti si parlava di cassa integrazione. Erano voci, perché poi hanno confermato tutti. Tranne noi tre».
La notizia ha sconvolto una vita consolidata. Dieci anni di lavoro sono difficili da dimenticare anche se oggi sembrano scomparsi nel nulla. I giorni all’improvviso cambiano di segno. Ci si sente traditi e nascono tante paure. Si viene schiacciati dalla solitudine. E non si crede più alle promesse che in tanti si sentono di fare. «Mi hanno tolto il lavoro e quello che più mi apparteneva: la dignità – aggiunge A.C. – I primi mesi, in estate, sono stati durissimi. Ero arrabbiata. Ora sto meglio. Ma voglio la mia dignità e i miei diritti».

A.C. ha scelto di portare in tribunale il Pd di Renzi impegnato ad estendere le tutele per i precari degli altri, ma non per i propri. Come avvocato ha scelto Pierluigi Panici, uno dei legali della Fiom contro la Fiat di Marchionne nel caso dei licenziamenti di Barozzino, Lamorte e Pignatelli a Melfi e in quello dell’esclusione del sindacato di Landini dalle aziende del gruppo in Italia.

Il ricorso è stato depositato alla sezione lavoro del tribunale civile di Roma lunedì 29 settembre, all’indomani di un nuovo attacco di Renzi alla Cgil durante la trasmissione «Che tempo che fa». Ignaro del fatto che l’articolo 18 non riguarda partiti (come il suo) e sindacati, il presidente del Consiglio ha sostenuto che la Cgil non ha mai applicato questa norma ai suoi dipendenti. In compenso si scopre che il Pd ha ereditato dalla Margherita e ha continuato ad usare per sette anni uno degli strumenti più diffusi nei settori dei servizi o dell’edilizia: l’interposizione parassitaria di manodopera, un vecchio retaggio del caporalato adottato in molte realtà del terziario avanzato.

In questa brutta storia il partito di Renzi ha dimostrato di essersi adeguato al supermarket italiano della precarietà. «Come tutti i datori di lavoro – sostiene Panici – il Pd ha sfruttato la manodopera a suo piacimento, licenziandola quando lo ha ritenuto più opportuno. Il lavoro sporco lo fa il subappaltatore». In questi casi l’azienda appaltatrice si appropria del frutto del lavoro, tratta il lavoratore come tutti gli altri dipendenti, ma non si fa carico dei suoi crediti o degli oneri previdenziali. Così evita di prendersi responsabilità ma continua a usare intermediari che non hanno «piena autonomia gestionale» né corrono «rischi d’impresa». Il «lavoratore viene trattato come una merce», si legge nel ricorso. «A.C. non conosce nemmeno le società intermediarie per cui lavorava ufficialmente – sostiene Panici – sono soggetti che davano solo la busta paga».

Il ricorso chiede il reintegro di A.C. e il pagamento delle retribuzioni dal 1 maggio 2014. E intende dimostrare che il Pd non ha rispettato il divieto di intermediazione di manodopera stabilito da ultima dalla Cassazione e che non è stato intaccato nemmeno dalla legge Biagi. A.C. sarebbe nei fatti, e in diritto, dipendente del Pd e il suo licenziamento effettuato dalla società intermediaria sarebbe «giuridicamente inesistente».

Al di là delle norme, e della politica, resta il coraggio di una ragazza che ha voluto sconfiggere la paura. «Spero di tornare a lavorare e fare quello che facevo prima – afferma A.C. – È giusto così. Dieci anni non sono pochi in una vita».