Un piccolissimo ciondolo pende dalla sottile catenina d’oro giallo per spuntare discretamente intorno al collo di Dor Guez (Gerusalemme 1980). È un regalo di suo padre quando era bambino. Indica il 18, numero spirituale nella cultura ebraica, associato alla parola «chai» (vita) che è anche simbolo visivo.
La famiglia dell’artista è di religione ebraica per parte paterna e di origine tunisina; per parte materna, cristiano-palestinese. Identità e memoria, con particolare attenzione alle minoranze, sono argomenti su cui Guez torna spesso, partendo proprio dall’album di famiglia. Laureato in fotografia e video all’Accademia di Belle Arti Bezalel di Gerusalemme (dove è attualmente responsabile del dipartimento di fotografia), l’artista ha presentato alla British School di Roma la mostra 40 Days (visitabile fino a oggi), quarto incontro di Fragments. Meeting Architecture, curato da Marina Engel e realizzato in collaborazione con l’Accademia di Francia a Roma e la Royal Academy of Arts di Londra.
Ha definito la sua pratica artistica un’«azione socio-poetica»…
Ho detto così? (ride). Penso che in generale gli artisti – tutti noi – siano ovviamente ossessionati dalla forma e da questioni legate all’estetica, ma questa deve essere collegata anche all’etica. L’arte contemporanea non è solo decorativa, è in contatto con la vita e riflette su questioni sociali e politiche. Quando parlo di «azione socio-poetica» mi riferisco al tentativo di suscitare delle domande, perché il pubblico possa – forse – guardare la storia, la propria vita, da un’altra prospettiva.

06__ Dor Guez, 40 Days, 2012 (video still)
L’identità è un tema centrale della sua ricerca…
La mia è una ricerca focalizzata sul Mediterraneo e sul Medio Oriente, le domande che mi pongo sono molto più universali. Oggi, forse più che in altri periodi storici, si parla di minoranze e maggioranze, emigrazione, si definiscono nazionalità e ci si confronta con situazioni estremamente complesse, come quelle che si vivono ora in Europa. È un momento stimolante che induce a rivedere il significato di essere cittadini europei e dell’Europa stessa. La mia è una prospettiva positiva, guardando dall’esterno, perché penso che l’identità sia qualcosa di molto fluido.

Parlando, invece, della sua identità? Per metà ebreo e per l’altra cristiano-palestinese…
Sono al 100% ebreo, al 100% cristiano, al 100% palestinese e al 100% israeliano. L’identità dipende dal contesto, in riferimento al momento. All’interno di una stessa giornata sento, ad esempio, che mi appartenga più un’identità che un’altra. Non necessariamente sono in conflitto perché israeliani e palestinesi vivono una lacerazione politica. Trovo, invece, che sia un arricchimento. Del resto non sono sicuro neanche di cosa voglia dire essere francese o italiano, perché è qualcosa che muta. Questo è anche ciò che cerco di dire attraverso il mio lavoro. Si usano le parole giuste per descrivere il significato di nazionalità? Cosa vuol dire nazionalista in questo momento storico?

Spesso i suoi progetti, che vengono esposti sia in Israele che altrove, sono considerati come azioni provocatorie…
Lo sono in maniera leggera. La mia intenzione non è quella, ma di tentare di raccontare storie. È molto bello il coinvolgimento delle persone nella narrazione. Se esiste un racconto non è detto che non ce ne debba essere anche un altro, altrettanto valido. Soprattutto tra le nazioni, c’è un grande dibattito su quale sia la storia giusta. Così, quando ci sono persone come me che esulano da una determinata narrativa, interrogandosi attraverso la piattaforma dell’arte, questo può essere interpretato come un atto di provocazione.

In «40 Days» si vuole esplicitare la questione della minoranza cristiano-palestinese che vive a Lod (Lydda o al-Lydd) e, in generale in Israele, partendo dal cimitero vandalizzato e dalla storia della sua famiglia?
Ho realizzato il progetto nel 2012 con il supporto della A.M. Qattan Foundation, The Mosaic Rooms e di ArtPace a San Antonio, Texas. Si tratta di una storia molto personale che riguarda la morte di mio nonno (Jacob Monayer, 1920-2011, ndr). Lui si vede negli ultimi giorni della sua vita, in ospedale. Ma la mia riflessione è più ampia, affronta la sua appartenenza a una minoranza come quella cristiano-palestinese in Israele. Due milioni di palestinesi sono cittadini israeliani ed essere cristiani in questo gruppo significa essere una minoranza nella minoranza.

In mostra vediamo una videoinstallazione e otto grandi immagini d’archivio stampate a getto d’inchiostro, definite «scanograms»…
Le «scanograms» sono immagini che non devono necessariamente essere scattate da me. Si tratta di un sistema. Lavoro con tre scanner come se fossero tre macchine fotografiche. Faccio scansioni multiple, arrivando a centinaia di una sola immagine che viene ricostruita per enfatizzare la sua stessa storia in quanto «oggetto», non solo per quello che rappresenta. In 40 Days le immagini sono quelle che ho scattato insieme a mio nonno per denunciare alla polizia quello che era successo nel cimitero. La polizia aveva rispedito quelle foto e mia nonna, anziché buttarle, le aveva riposte in un cassetto della cucina dove di solito conserva le carte (nel video, si vede anche Samira, nonna dell’artista, che prende in mano le stampe originali, diventate un unico blocco a causa dell’umidità e le separa guardandole una ad una, ndr). Non ci sono solo le immagini di un cimitero vandalizzato, ma le foto stesse – oggetti di carta – sono danneggiate. 40 Days è iniziato quando mio nonno era ancora in vita, mentre lavoravo al progetto è morto. È stato come un cerchio che si è chiuso.

DSC_0098 - Dor Guez a Villa Medici, 2016 (ph Manuela De Leonardis)
Dor Guez a Villa Medici, 2016 (ph Manuela De Leonardis)

Nel 2009 lei ha creato il Christian-Palestinian Archive. Quali sono gli obiettivi?
L’archivio è importante perché si crede che i palestinesi, come pure gli israeliani e magari anche gli italiani, abbiano un’identità monolitica. Attraverso l’archivio, invece, posso mostrare che siamo persone reali. Alcuni di noi vivono in Palestina, altri fuori. Alcuni sono cristiani, altri musulmani. Viviamo in regioni diverse e proveniamo da culture differenti. L’archivio è nato in maniera spontanea dalle mie foto di famiglia, poi si è allargato a quelle della comunità e dell’intera città di Lod. Si è diffusa la notizia che stavo collezionando immagini e molte persone hanno cominciato a scansionare le proprie foto di famiglia e ad inviarmele da San Paolo, Berlino, Londra e dal resto del mondo. Non le ho mai contate, ma sono migliaia. In un certo senso, è l’opposto di quello che si suppone sia un archivio: non è commerciale e sta crescendo senza alcuna organizzazione, basato su foto che non sono professionali. È come una grande comunità virtuale diffusa in tutto il pianeta.