Ci sono schermi bianchi pronti a giocare con la Storia «che non c’è» e altri dove la parola fine o, meglio ancora, the end, cerca di chiudere con il passato, con la deperibile miserabilità delle biografie collettive, per aprire a possibili narrazioni del presente. Spesso, quegli stessi schermi non sono bidimensionali, ma sculture che incorporano il movimento, spingendosi verso il mondo esterno, in offerta oscena.
Se invece c’è un tempo che Fabio Mauri lascia scorrere senza provare a decifrarlo, questo è il futuro. Nella sua lunga e intensa attività artistica e culturale, quella prospettiva predittiva, forse arrogante, non è mai entrata dalla porta principale. Il lavoro da fare, d’altronde, è già impegnativo: bisogna cogliere i segni incisi nella realtà e organizzarli in una conoscenza sensata. Magari aiutandosi con la magia dei proiettori cinematografici che, per loro natura, «riflettono» immagini e costruiscono un metalinguaggio, attraversando, anzi bucando i corpi.

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IL RISULTATO è sorprendente: la fisicità vera diventa simulacro e, viceversa, l’icona si fa carne pura, abito cucito addosso della persona, una sorta di semiologia identitaria. Basti pensare a un’azione come Intellettuale (del 1975). Pier Paolo Pasolini, in camicia bianca seduto in cima alle scale davanti la porta della galleria d’arte moderna di Bologna, accoglie su di sé i fotogrammi del film Il Vangelo secondo Matteo. Si fa pellicola vivente. E il regista rivive sulla propria pelle le idee che hanno dato origine all’opera: dichiarerà di aver provato un certo disagio, soprattutto a causa del sonoro invasivo, impostato a volume troppo alto.
Fabio Mauri, poliedrico pensatore del XX secolo (e anche di parte del XXI, pure quando quel pensiero poteva «intossicare una stanza», come recita il titolo di una complessa installazione che si dipana in 36 schermi) è il protagonista di una mostra monografica presso il museo Madre di Napoli. Si rende omaggio alla sua «filosofia artistica», ricapitolando con dovizia di particolari l’avventura di un disobbediente.

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Machette di una mostra di Fabio Mauri

Retrospettiva a luce solida, a cura di Laura Cherubini e Andrea Viliani (visitabile fino al 6 marzo 2017) è una rassegna che ha potuto contare sulla stretta collaborazione dello studio Mauri, disseminando per i tre piani del museo più di cento opere, re-enactment di celebri performance, documenti. Viene proposta anche una carrellata di machette architettoniche che ricreano gli allestimenti delle principali esposizioni, riconsegnando alla dimensione della finzione e del teatro, così connaturato all’agire dell’artista, la scena effimera delle mostre e delle azioni pubbliche.
Nonostante il percorso al Madre abbia un inizio (anche spettacolare, al piano terra, con il Muro del pianto e l’inquietantissimo Cavallo di S.S. con finimenti in pelle ebrea a sbarrare il passo) e una ipotetica fine, il visitatore può aggirarsi in quel labirinto costellato di quesiti in piena libertà. L’ideologia, più volte nominata, non può che essere interattiva: c’è chi la certifica e chi la condivide o la rifiuta.

IL RACCONTO DI MAURI procede per balzi, s’interroga sulle dittature, sui vuoti della Storia – anche quella individuale – e proietta incubi e sogni lì dove si manifesta un’assenza. Soggetti e oggetti della rimozione tornano a galla, si incidono nella memoria. Non fa sconti, Fabio Mauri, costringe ognuno di noi alla concetrazione dello sguardo.
D’altronde, neanche per lui ci furono scorciatoie leggiadre. Dopo la guerra, la sua mente entrò in sofferenza e il cortocircuito psichico lo pagò con ricoveri ed elettroshock. La lettera di dimissione dall’ospedale che riportava un certo «ritorno alla normalità» – era il 10 agosto del 1952 – venne tirata in cento esemplari dall’artista, trasformandosi in una testimonianza potentissima dello smarrimento di fronte alle atrocità. Ma per tutta la sua esistenza (è morto nel 2009 a Roma dove era nato nel 1926), Fabio Mauri non ha mai smesso di interpellare il concetto di trauma e di diagnosticare la sua presenza tra le pieghe della Storia (Ebrea, Che cosa è il fascismo, Natura e cultura, Oscuramento),  facendolo riaffiorare. «Siamo abituati alle perdite – scriveva -. E l’uomo è comprimibile all’infinito. Sebbene il fatto, e da qualche parte dovrebbe risultare, è della natura drammatica, forse tragica, delle cose».

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CRESCIUTO IN UNA FAMIGLIA a forte impronta teatrale e letteraria (il nonno fu il grande impresario che portò in Italia Buffalo Bill, mentre suo padre Umberto non riuscì a tenere in piedi quell’impero e si dedicò all’editoria: insieme al cognato Valentino Bompiani lavorò per Arnoldo Mondadori e poi nella gestione di Messaggerie italiane), Mauri ha sempre creduto nel coinvolgimento dello spettatore – per Oscuramento persone vere subivano uno straniamento, mescolandosi alle statue di cera del museo romano – e nello sviluppo dei suoi interventi nel tempo. Europa bombardata, riproposta in mostra a Napoli con la stessa modella della prima volta, Danka Schröder (il Madre offre una serrata programmazione delle performance), subì variazioni e il progetto originario non vide la luce come immaginato da principio, ma fu riaggiustato. Narrava attraverso oggetti sparsi e alcuni luoghi simbolici (avveniva dentro una chiesa di Bologna e prevedeva un set che somigliasse ai forni crematori dei campi di sterminio) la fenomenologia fascista, anche nella quotidianità.

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Le azioni di Mauri sono altamente politiche, ma il tema più politico di tutti, legato a una riflessione profonda sull’«essere al mondo», è quello che indaga la relazione fra artificio e realtà (compresa la dimensione della consapevolezza morale). Un binomio che l’artista non abbandonò mai. Fu tra i primi, infatti, a lavorare intorno alla televisione e lo fece proprio ai primordi del mezzo, indovinando l’avvento della civiltà dell’immagine e l’invulnerabilità di quel mezzo di comunicazione. Profetico, con l’installazione Luna (alla galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis a Roma, nel 1968) ricostruì un’astronave e la superficie lunare in polistirolo così come la diretta tv mostrerà di lì a poco, seguendo le sorti dell’Apollo 11 e la prima passeggiata di Neil Armstrong. Il pubblico poteva ripetere l’esperienza, tuffandosi in quello spazio bianco.

FRUGANDO SENZA SOSTA nelle tasche dell’immaginario, Fabio Mauri giunse a rappresentare quei Cinema a luce solida che, come scrisse Gillo Dorfles, erano «divertissement del letterato che gioca con l’ordigno tecnologico, ma anche scoperta dell’’operatore plastico’ che inventa una sagoma scultorea per la prima volta evidenziata, prima di allora inesistente o esistente solo come finzione, come artificio». Un modo di vedere il mondo sdoppiato, in un sistema di riflessi incrociati che, con il loro inganno ottico, rendono necessario l’esercizio del discernimento.